Diciannove milioni di uomini (89%) e donne (11%) sparsi attraverso gli States e territori associati, una “lunga linea grigia” stesa tra il Maine e l’Alaska, la Virginia e Portorico, il Texas e le Hawaii. È il popolo dei veterani delle tante guerre americane, i reduci del secondo conflitto mondiale (nel 2021 ancora 220.000, l’1%) e della Corea (5%), i sopravvissuti del Vietnam (31%) e i tanti che hanno combattuto negli ultimi trent’anni sui vari fronti — Iraq, Somalia, Afghanistan etc.— improvvidamente aperti e malamente chiusi dai vari presidenti di Washington. Sono i più giovani e i più numerosi (63%).
Dato interessante è la composizione etnica della galassia dei reduci, numeri che riflettono i mutamenti in corso negli Stati Uniti. I bianchi rappresentano ancora il 74% del totale mentre i neri sono il 13, gli ispanici l’8 e gli asiatici il 2%. Equilibri destinati a mutare nei prossimi vent’anni quando i bianchi scenderanno al 62%, gli ispanici saliranno al 16 e gli afroamericani al 15.
A tutti loro cerca di provvedere l’Us Department of Veterans Affairs, il ministero per gli ex combattenti, che coordina una serie di servizi —pensioni, cure, assicurazioni, inserimenti lavorativi, formazione —, gestisce 1500 ospedali e cura (in Patria e all’estero) 151 cimiteri. Una macchina enorme e molto dispendiosa: 387.000 dipendenti (di cui un terzo veterani) con un budget annuale di 243 miliardi di dollari. Impegni e cifre importanti che fortunatamente non disturbano i molto patriottici contribuenti, anzi. Un sondaggio del Pew Reserch Centre ha infatti rivelato che il 72% degli americani ritiene che l’aiuto ai vecchi soldati è una priorità nazionale e che gli investimenti a loro favore andrebbero rafforzati ulteriormente.
Un sentimento diffuso ben raccolto alla politica anche grazie alla potente lobby di veterani presente nei palazzi del potere: 91 dei 538 senatori e deputati eletti a Washington hanno indossato in gioventù (o, in alcuni casi, sino alla pensione) la mimetica e ben 991 dei 7559 eletti nei parlamenti degli Stati federali rivendicano orgogliosamente un passato militare. Ovviamente la grandissima maggioranza di loro milita nel partito repubblicano e gode del sostegno di associazioni benemerite e popolarissime come VoteVets o l’America Legion. Da qui i programmi di sostegno governativi che facilitano l’ingresso dei reduci nelle amministrazioni pubbliche e nella polizia (19% della forza effettiva) oppure nella sicurezza privata.
Una somma di provvedimenti che ha permesso (in controtendenza rispetto al trend americano) di abbassare i tassi di disoccupazione al 3,8% e ridurre in nove anni il numero (dai 74.000 del 2010 ai 37.000 del 2019) degli homeless, i veterani poverissimi, i senza casa e senza futuro. Una piaga che ha tutt’oggi il suo epicentro nella Virginia occidentale e si estende dall’Indiana al Missouri, dal New Mexico al Montana e all’Oregon.
Altrettanto problematica rimane la questione sanitaria. Nel 2020 il rapporto dell’US Department of Veterans Affairs contava una percentuale del 41% di mutilati tra i reduci dell’Iraq e dell’Afghanistan — i volontari post-11 settembre 2001 —, gente ancora giovane ma ormai inabile o quasi al lavoro e un numero altrettanto alto (44%) di reduci traumatizzati dai combattimenti. Un segmento di disperazione che oscilla nella depressione quotidiana con cadute nell’alcolismo, nelle droghe o peggio. Ogni anno più di seimila ex militari, attanagliati dai loro fantasmi, scelgono di suicidarsi. La guerra, ogni guerra, è una brutta bestia.