Nel 1994, Henry Kissinger scriveva nelle ultime pagine de “L’arte della diplomazia” che l’ordine post-Guerra Fredda avrebbe posto l’Alleanza Nord Atlantica di fronte a tre ordini di problemi. Anzitutto le relazioni interne alla struttura tradizionale dell’alleanza; poi le relazioni tra le nazioni atlantiche e gli ex Stati satelliti dell’Unione Sovietica nell’Europa orientale; e, infine, le relazioni degli Stati successori dell’Unione Sovietica, in particolare la Federazione Russa, con i Paesi membri della NATO.
L’incontro tra Biden e Putin che non ci sarà a Bali
Una previsione tutto sommato corretta quella di Kissinger, in particolare l’ultima. Oggi, infatti, è pacifico considerare la guerra in Ucraina una commistione di tutti quei problemi. Ma fino a che punto le recenti azioni del Cremlino abbiano compromesso le relazioni diplomatiche con il resto del blocco occidentale lo testimonia l’ansia dello staff della Casa Bianca in vista del prossimo summit del G20 a Bali il 15 e il 16 novembre. Joe Biden comincerà il suo viaggio in Asia il giorno dopo delle midterm, il 9 novembre, verosimilmente indebolito da delle elezioni che si preannunciano sventurate per il Partito Democratico. La prima tappa dell’itinerario sarà a Phnom Penh il 10 novembre, per la conferenza dell’ASEAN, da dove poi raggiungerà l’Indonesia.
Il team di Biden sta prendendo tutte le precauzioni possibili per evitare che il Presidente degli Stati Uniti venga catturato da fotografi e telecamere insieme al suo omologo russo, Vladimir Putin. Questa riluttanza a incontrarsi ha un valore simbolico intrinseco ed è parte del piano di boicottaggio internazionale che la Nato e i suoi alleati hanno eseguito per isolare quello che ormai può rientrare a pieno titolo nel triste elenco di pariah state in giro per il mondo. Negli ultimi mesi le voci riguardo a un accordo tra Usa e Russia si sono nondimeno moltiplicate, con il contributo dello stesso Biden e delle sue gaffe corrette dalla portavoce Karine Jean-Pierre.
Non tanto per l’ingarbugliata situazione in Ucraina, dove la prospettiva per un negoziato sembra al momento inarrivabile, ma per ragionare su uno scambio di prigionieri, con la cestista statunitense Brittney Griner, condannata da un tribunale russo a 9 anni di carcere, che rasenta lo status di prigioniera politica. E non si registrano aperture neppure sul caso Whelan, l’ex marine americano che sta scontando 16 anni di galera in Russia con l’accusa di spionaggio. Una soluzione diplomatica, auspicata da Biden prima di chiudere la porta definitivamente a un incontro con Putin al G20, non è impossibile, ma presuppone intanto che le parti interagiscano tra di loro e in secondo luogo che si mettano d’accordo su quali concessioni fare all’altro.
Il dialogo sotterraneo tra Mosca e Washington
Per Washington, le richieste di Mosca rimangono comunque irricevibili. D’altronde, Putin è un “killer”, un “criminale di guerra”: così lo ha descritto pubblicamente Biden negli ultimi due anni, dunque da prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Durante l’ultimo vertice tra i due a Ginevra, nell’estate del 2021, non trasparì alcuna aria di cooperazione né di conciliazione. Anzi, dopo pochi mesi l’intelligence statunitense cominciò a mettere in guardia la comunità internazionale sulle prossime intenzioni imperialiste dello Zar, avvertendo le cancellerie europee dei sospetti movimenti militari intorno alla Bielorussia. Nonostante la periodica evocazione dell’incubo nucleare da parte del Cremlino, che ha adottato una retorica austera e bellicosa, la diplomazia è ancora sana e salva, indipendentemente dal carattere e dagli attributi dei leader.
I colloqui tra gli alti livelli del governo Usa e di quello russo non si sono fermati, neppure dopo la guerra in Ucraina. Lo dimostrano le frequenti conversazioni tra il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, e il ministro Sergey Shoigu; l’ultima è avvenuta a fine ottobre. La hotline tra i due dicasteri è stata creata nel marzo scorso. Il famoso telefono rosso di kennediana memoria che collega Mosca e Washington, che non è un telefono, ma una linea di comunicazione sicura e diretta tra le due capitali, è invece più che attivo che mai, come ha confermato il Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan.


(Foto: TASS/Sipa USA)
La de-escalation, di fronte al rischio di un conflitto nucleare, resta la priorità numero uno della Casa Bianca. E sulla stampa statunitense è iniziata anche a circolare la notizia che l’amministrazione Biden avrebbe invitato il governo ucraino a superare il niet assoluto al negoziato con Putin, certificato da un decreto firmato dal presidente Volodymyr Zelensky in seguito alle annessioni illegali delle regioni di Zaporizhzhia, Kherson, Luhansk e Donetsk. Un cambio di strategia che riflette una crescente insofferenza per lo stallo che potrebbe prolungarsi a lungo in attesa di una qualsiasi svolta politica, militare o diplomatica.
Un messaggio agli alleati
Ma non sarebbero gli Stati Uniti quelli insofferenti, come spiega il Washington Post. “La richiesta dei funzionari americani – scrive il quotidiano statunitense – non ha lo scopo di spingere l’Ucraina al tavolo dei negoziati. Piuttosto, l’hanno definita un tentativo calcolato di garantire che il governo di Kiev mantenga il sostegno di altre nazioni che si trovano ad affrontare elettorati diffidenti nell’alimentare una guerra ancora per molti anni a venire”.
I funzionari americani, nota ancora il Post, avrebbero spiegato a Kiev che il divieto di Zelensky avrebbe allarmato diversi Paesi di Europa, Africa e America Latina, aree che più di altre hanno risentito degli effetti della guerra, in particolare sul costo del cibo, dell’energia e del carburante.
Intanto il dipartimento di Stato lavora freneticamente insieme agli altri rami del governo americano per garantire la sicurezza dei suoi cittadini all’estero, mentre il Pentagono dal primo giorno di guerra offre crescenti rassicurazioni a tutti gli alleati su possibili colpi di mano russi e si è fatto custode dell’ordine europeo tutelato dalla Nato. L’articolo 5 del Patto atlantico resta sacro per Washington. Ma il compromesso diventa sempre più inevitabile, pena il rischio di uno sconvolgimento eccessivo dell’ordine globale dato dal rischio di una guerra di logoramento dal destino sempre più incerto.