Errare humanum est, ossia errare è umano, così dicevano gli antichi. Una verità sempreverde, applicabile ad ogni epoca e ad ogni tipo di ambito – dalle relazioni sociali alla politica –, che accompagnerà l’Uomo sino all’ultimo dei suoi giorni.

La storia è un libro infinito le cui pagine si riempiono degli errori di alcuni e delle intuizioni di altri. Perché il successo è anche, se non soprattutto, l’arte del carpe diem, del cogliere l’attimo-opportunità quando si presenta. E che, nel caso delle relazioni internazionali, può essere ed è frequentemente rappresentato dagli sbagli dell’avversario.

Per ogni attore che ha una svista, un altro è pronto ad intervenire per trarne vantaggio. È Filippo II che assembla l’Invicibile armata, non premurandosi di guardare il meteo prima di inviarla nelle isole britanniche, insegnando a Sua Maestà cosa una talassocrazia debba e non debba fare. È l’Unione Sovietica che invade l’Afghanistan, ignara che si tratti di una trappola a stelle e strisce avente il nome di operazione Ciclone. Sono Iraq e Iran in guerra per un decennio, all’oscuro del fatto che la presidenza Reagan stia armando entrambi allo scopo di dissanguarli senza colpo ferire. È Vladimir Putin che invade l’Ucraina nel 2022, dimentico delle lezioni afgana e irano-iraqena, dando impulso ad una transizione multipolare che rischia di procurare più vantaggi ad altri che alla Russia.

La vera notizia di settembre è passata inosservata

Negli stessi momenti in cui Putin, il 21.9.22, annunciava in un messaggio alla nazione la fine del camuffamento dell’operazione militare speciale, decretando l’avvio dell’attesa mobilitazione parziale, nel cuore mackinderiano dell’Asia profonda avveniva qualcosa di geoeconomicamente significativo: l’inaugurazione di una nuova rotta commerciale, di tipo multimodale, unente i mercati del rinato Impero celeste e di ben tre –stan.

Della rotta Cina-Kirghizistan-Uzbekistan-Afghanistan si discuteva da tempo, trattative e preparativi avevano costellato il 2021, ma è stato soltanto con lo scoppio della guerra in Ucraina che le parti hanno sveltito i lavori al banco negoziale, benedicendo la partenza sperimentale del primo carico di merci alla vigilia del vertice di Samarcanda. Partenza in sordina, curiosamente, di cui i giornali hanno cominciato a parlare soltanto a partire dal 21 settembre.

La tratta, la cui efficienza nella riduzione dei tempi e dei costi di trasporto verrà testata nel corso di un periodo di prova della durata di tre mesi, è stata costruita su richiesta esplicita di Biškek e Taškent, desiderose di ridurre la loro dipendenza commerciale e infrastrutturale da Mosca, e dovrebbe consentire il transito annuale di circa quattromila container.

La rotta – al momento stradale – potrebbe essere affiancata, qualora il comitato di giudici le desse pieni voti, da una serie di linee ferroviarie confluenti, in grado di unire lo Xinjiang al Pakistan via Kirghizistan, Uzbekistan e Afghanistan, permeando l’intera regione dell’olezzo della Belt and Road Initiative. Terrorismo, pressioni di rivali e dispute territoriali, si intende, permettendo.

L’impantamento russo fa gola a molti

La guerra in Ucraina, a meno di radicali inversioni di tendenza, potrebbe rivelarsi il rischio calcolato male di Putin. E non è soltanto per il lancio di nuove rotte commerciali sino-centriche in Asia centrale, ma per l’insieme degli eventi provocati e/o catalizzati. La definitiva ascesa di Pechino quale leader incontrastato dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai, palesata in occasione del vertice di Samarcandaprotagonizzato da Xi Jinping per quantità e qualità di accordi siglati e per spirito di iniziativa. Il divenire del Caucaso meridionale un condominio turco-russo sempre più esposto alle manovre destabilizzatrici di Ankara e Washington. L’addormentamento dell’autonomia strategica europea, unica speranza per Mosca (e Bruxelles) di impedire la trasformazione dell’Unione Europea in un 51esimo stato sito nell’estremità occidentale dell’Asia. Le tensioni crescenti con gli –stan, in particolare con l’indispensabile Astana.

L’Ucraina come rischio calcolato, sì, ma calcolato male. Lo si era scritto sulle nostre colonne allo scoppio della guerra, preconizzando una “possibile sconfitta strategica […] all’orizzonte” promanante dalla sottovalutazione “dell’impatto del conflitto in casa e nello spazio postsovietico” e delle sue “ricadute negative per la transizione multipolare”, nonché dalle implicazioni per la “credibilità del Cremlino nel dopoguerra”. Un impantamento che fa gola a molti: dai rivali di sempre, come gli Stati Uniti, agli aminemici senza confini, come la Cina, fino a competitori, come la Turchia, e satelliti alla ricerca di nuovi pianeti attorno ai quali ruotare, come il Kazakistan.

Nelle repubbliche ex sovietiche, “dove la russofobia è sempre stata tangibile sia nel basso sia nell’alto”, scrivevamo che le “proteste nelle piazze” avrebbero influenzato i politici – esempi eclatanti sono, a questo proposito, la svolta verso una “multivettorialità antagonistica” della presidenza Tokayev, lo stringersi di Baku attorno ad Ankara, il brusco aumento della centralità di Pechino in Asia centrale e la ventata di europeismo tra Tbilisi e Chișinău.

L’aumento della frammentazione all’interno del Mondo russo come risultato (in)evitabile, sebbene certamente intuibile e (forse o in parte) reversibile, della guerra in Ucraina. Perché, si scriveva ai primordi del conflitto, “se la durata fugace dell’intervento OTSC in Kazakistan era stata dettata dalla volontà di non turbare gli animi dei popoli postsovietici, questa operazione militare susciterà un effetto cento volte opposto: gli ucraini, e non solo loro, guarderanno a Kiev 2022 come a Budapest 1956”. Sensazione apripista di “crepe nel sistema di potere” – palesate dalla moria di securocrati e affaristi –, di “piantatura di semi della discordia a livello di opinione pubblica a uso e consumo dell’Occidente” e dal “diffondersi di un’impercettibile ma perniciosa ostilità russofobica nella sfera di influenza” della Russia.

Oggi è storia, domani è mistero

È e sarà sempre così: gli spettatori vengono catturati da quanto accade nel palcoscenico, luogo di messinscene attoriali, luci dei riflettori e di timbri vocali amplificati dai microfoni, ignorando del tutto l’esistenza e l’importanza del silenzioso dietro le quinte. Dietro le quinte che, però, analisti e osservatori più attenti non possono assolutamente trascurare.

Perché il retroscena è dove si scrivono i copioni degli attori e dove si costruisce l’intero atto. E perché è dove agiscono, protette dal manto dell’imperscrutabilità, le potenze più pragmatiche e lungimiranti, gelose custodi dell’arte della diplomazia segreta, come la Repubblica Popolare Cinese. Che è e resta la sola egemonia in ascesa in grado di minare le fondamenta dell’Impero americano nel XXI secolo. E che ha dimostrato tutta la propria scaltrezza nel corso della guerra in Ucraina, momento-opportunità sfruttato per espandersi sia nel cortile di casa di Mosca sia nei ventri molli dell’Anglosfera, come le Salomone.

Se vero è che oggi è storia e che domani è mistero, però, è fondamentale che si eviti di dare per scontata e cristallizzata la fase di “regressione imperiale” che sta vivendo la Russia. Russia il cui tracollo sarebbe più un problema che altro per la Cina, essendo tra i motori della transizione multipolare e un magnete in grado di denare importanti risorse agli Stati Uniti che verrebbero altrimenti impiegate da loro nell’Indo-Pacifico. E Russia che non vuole cadere, perché ciò comporterebbe scenari eltsiniani, e che potrebbe tentare dei nuovi slanci egemonici nel dopo-Ucraina. Sulla falsariga degli Stati Uniti usciti distrutti, ma elettrizzati da una scossa di revanscismo, dalla guerra civile, il trampolino di lancio verso l’espulsione dei francesi dal Messico e, a posteriori, degli spagnoli dai Caraibi. La storia si scrive domani.

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