Transnistria, o Pridnestrovie, è un nome destinato a entrare nel vocabolario dell’opinione pubblica e della classe dirigente dell’Unione Europea. È il nome di uno stato a riconoscimento limitato che giace all’estremità nordorientale dei Balcani, separando l’eurosfera dalla russosfera e trattenendo la Moldavia in un limbo geopolitico.
La Transnistria è uno dei nodi irrisolti del Novecento di cui l’Europa è piena, in particolar modo nei Balcani – Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord, Serbia-Kosovo –, e la cui venuta al pettine, a lungo congelata, ha ricevuto uno straordinario impulso con l’apertura di quello scrigno di Pandora che è l’Ucraina.
Invadendo l’Ucraina, il super-11 settembre del XXI secolo, la Russia ha posto la pietra tombale sul Riavvio, in coma dal 2014, e deciso di capitalizzare al massimo il patrimonio di conflitti congelati ereditato dalla fine incontrollata della Guerra fredda. Con l’obiettivo immediato di disperdere le risorse cognitive dell’Occidente, impiegate in Ucraina, e con lo scopo ultimo di metterlo sotto stress a mezzo della creazione di uno stato semipermanente di policrisi.
Sensibilizzare sulla Transnistria è fondamentale. Qui è dove si sta giocando una parte delle guerre russo-americane ed è anche dove, in assenza di soluzioni – difficili da trovare a causa di un insieme di fattori –, un giorno potrebbe scoppiare una delle nuove guerre russo-americane.
Le origini della questione transnistriana
La Transnistria, la terra del Nistro, è una striscia di terra perfettamente incuneata tra Moldavia e Ucraina, ancestrale stazione di frontiera che separa rumenosfera e russosfera, che nei secoli è stata sotto lo scettro di russi, polacco-lituani e ottomani.
Stato-cuscinetto degli austro-ungarici – utile a fermare Mosca sul Nistro –, mela d’oro degli ottomani, Eden perduto dei valachi – già citati nella Cronaca degli anni passati – e antidiluviana brama dei russi, la Transnistria, insieme alla Bessarabia, è stata al centro di lotte e migrazioni per secoli.
Inglobata nell’Impero russo a partire da fine Settecento, come risultato delle guerre russo-turche e dell’estinzione della Confederazione Polacco-Lituana, la Transnistria è stata successivamente oggetto di un processo di russificazione ed è stata inserita nel progetto espansionistico degli Zar noto come Nuova Russia. Culminato nel Trattato di Bucarest, anno domini 1812, che ha sanzionato l’inizio del protettorato russo sul Principato di Moldavia e l’implementazione dell’agenda di russificazione sull’intero territorio.
La più russa delle regioni moldave, anche per ragioni etno-culturali – russi primo gruppo etnico (29-34% della popolazione totale) e russo lingua di sei abitanti su dieci –, la Transnistria si è autocostituita stato nel 1990, galvanizzata dal movimento per l’indipendenza della Gagauzia di Stepan Topal, proclamando la secessione dalla Moldavia e dando vita ad una guerra.
La guerra transnistriana, altresì nota come la guerra russo-moldava, sarebbe stata breve ma intensa, limitata ma incisiva nel tempo. Due anni di scontri, con le truppe regolari di Chișinău supportate da Bucarest e con i separatisti di Tiraspol sostenuti da Mosca e Belgrado, terminati con più di 1.000 morti e oltre 2.000 feriti. Un conflitto vinto dal grande sfavorito, il fronte transnistriano, che fu capace di imporsi sul terreno di battaglia più per l’utilizzazione efficace ed efficiente dell’arsenale di Cobasna – il più grande deposito di armi e munizioni dell’Europa centrorientale – che per gli aiuti limitati provenienti da Mosca e Belgrado – due alleati in piena implosione.
Un conflitto congelato, ma non sepolto
Sono oggetto di dibattito, ancora oggi, i motivi conduttori dei separatisti transnistriani. Una scuola di pensiero vede la dichiarazione di indipendenza e l’annessa guerra di secessione come gli esiti desiderati di una strategia dell’Unione Sovietica, che, sebbene in frantumi, avrebbe intravisto nella strumentalizzazione dei piccoli nazionalismi una sorta di ipoteca sul futuro degli stati postsovietici in divenire – la Transnistria quale equivalente moldavo dell’Artsakh. Un’altra scuola di pensiero ritiene che il moto separatistico sia stato genuino, scaturito dalla prospettiva spettrale di una Moldavia disciolta nella Grande Romania, e che la Russia abbia semplicemente approfittato dell’inaspettata opportunità.
Che la Russia abbia colto orazianamente l’attimo, o che invece l’abbia ingegnosamente creato, certo è che dal 1992, anno della fine delle ostilità concordata per mezzo di un cessate il fuoco siglato da Boris Eltsin e Mircea Snegur, la Moldavia vive nel limbo – giacché il conflitto congelato le impedisce di entrare nelle istituzioni formali dell’occidentalosfera – e la Transnistria è uno stato di fatto – possesso di istituzioni, svolgimento di elezioni, monopolio della forza, una zecca statale, emissione di documenti identificativi, relazioni internazionali – sulla cui esistenza vigilano, dal 1992, i circa 1.500 soldati del Gruppo operativo delle forze russe.
La risoluzione impossibile?
Dei tentativi di risolvere la questione transnistriana diplomaticamente sono stati fatti, e hanno coinvolto una pluralità di giocatori ed organismi internazionali, ma non hanno mai prodotto risultati concreti. Le principali iniziative di pacificazione e normalizzazione sono state le seguenti:
- Il memorandum Primakov, 1997, frutto della mediazione di Ucraina e OSCE, e accettato sia da Mosca sia da Chișinău, proponeva quale soluzione una Transnistria integrata nella Moldavia sotto forma di regione ampiamente autonoma.
- L’accordo tra gentiluomini di Istanbul, 1999, consistente nella promessa della Russia di ritirare il proprio dispositivo militare dalla Transnistria entro il 2002.
- Il piano Kozak, 2003, elaborato da Dmitrij Kozak allo scopo di perfezionare e trasporre in realtà il memorandum Primakov, prevedeva la trasformazione della Moldavia in uno “stato federale asimmetrico”, coi ruoli e coi poteri di legislatori e parlamenti di Tiraspol e Comrat sensibilmente aumentati a detrimento delle istituzioni centrali di Chișinău. Il piano fu rigettato dalla Moldavia, dove scatenò delle gravi proteste, comportando l’annullamento di una visita ufficiale di Vladimir Putin prevista quello stesso anno.
- Il piano Juščenko, 2005, realizzato dal duo Juščenko-Porošenko, prevedeva un processo di pacificazione per tappe, supervisionato da un corpo internazionale di osservatori provenienti da Ucraina, UE e Stati Uniti, che sarebbe dovuto culminare nella reintegrazione della Transnistria nella Moldavia sotto forma di regione a statuto speciale. Il piano naufragò a causa dell’assenza di interesse di Tiraspol, che, l’anno successivo, organizzò un plebiscito sul proprio futuro, Moldavia o Russia, terminato con il 98% dei suffragi a favore dell’integrazione con la Russia.
Dalle ceneri del piano Juščenko, il più dettagliato (e pragmatico) che sia mai stato prodotto negli anni, è sorto il Formato 5+2, un quadro di concerto e negoziazione composto da Moldavia, Transnistria, Russia, OSCE e Ucraina più UE e Stati Uniti, ed è stato lanciato un organo di controllo transfrontaliero, l’EUBAM, per contrastare le attività del crimine organizzato e del terrorismo. Il Formato 5+2 non ha apportato benefici al dialogo tra Moldavia e regione ribelle. L’EUBAM non ha potuto nulla per ridurre i traffici illegali e i crimini lungo il poroso confine moldavo-ucraino, dal contrabbando di sigarette ai giri di armi e materiale radioattivo, e la Transnistria resta un crocevia di illeciti in cui si intrecciano le strade delle mafie russa e ucraina, dei clan ceceni e dei cartelli turchi e arabi.
La Transnistria oggi
La Transnistria è il jolly con cui il Cremlino ha inibito il processo di adesione della Moldavia all’UE, rendendo financo meno probabile quello alla NATO, esercitando al contempo una pressione straordinaria sulle due Clădire.
A mezzo della Transnistria, dove incidenti pilotati avvengono a cadenza regolare – per ricordare alla Moldavia che non ha a che fare con un morto, ma con uno zombi –, l’opinione pubblica moldava viene mantenuta in uno stato di ansia permanente. La paura di una guerra fratricida in casa, magari più truce della passata. La paura di un’invasione su larga scala da parte della Russia, dati i precedenti georgiano e ucraino. La paura di una tragedia di proporzioni immani, se qualcuno o qualcosa facesse saltare in aria l’arsenale di Cobasna, contenitore di 20.000 tonnellate di munizionamenti ed esplosivi, innescando un’esplosione simil-nucleare.
L’aria tra le due Moldavie si è appesantita a partire dal 24 febbraio 2022, in concomitanza con l’inizio della guerra in Ucraina, che ha avvelenato ulteriormente le relazioni Chișinău-Tiraspol e deteriorato il dialogo Chișinău-Mosca. Cinque attacchi armati contro obiettivi governativi e militari transnistriani avvenuti tra aprile e giugno 2022, uno dei quali su Cobasna, e la cui regia rimane ignota – scambio di accuse tra Tiraspol e Chișinău –, avevano fatto temere il peggio.
La fragile pace di piombo, nonostante le provocazioni – delle possibili false flag – ha retto per l’intera durata del 2022. Ma quanto ancora reggerà, anche alla luce dell’aggravamento della competizione tra grandi potenze e del relativo surriscaldamento delle periferie, resta da vedere.
Niente supremazia aerea, niente assalto dal cielo
Un attacco russo per cercare di raggiungere la Transnistria, in questa fase del conflitto, è altamente improbabile per tutta una serie di motivi, alcuni contingenti altri di tipo strutturale.
Innanzitutto nella regione secessionista della Moldavia, la Russia ha a disposizione solo tre battaglioni di fanteria meccanizzata per un totale di circa 2100 uomini, se consideriamo l’assetto medio dei “gruppi tattici di battaglione” (o BTG) russi. Non sappiamo esattamente la dotazione di questi BTG, ma è ragionevole pensare che non abbiano materiale paragonabile alle unità di punta dell’esercito russo, e l’inizio del conflitto ha definitivamente tagliato i possibili canali di rifornimento con la Russia.
La strategia, del resto, deve sempre considerare la geografia, e se guardiamo una mappa del territorio in questione, possiamo notare che la lunga regione della Transnistria è stretta tra la Moldavia e l’Ucraina, senza sbocchi sul mare e molto lontana dai confini della Federazione Russa.
In sostanza, senza poter contare sul controllo assoluto dei cieli, Mosca non può far arrivare rinforzi in Transnistria, e nemmeno utilizzare le rotte marittime, stante il fatto che la Flotta del Mar Nero non ha ottenuto il sea control in quello specchio d’acqua e sarebbe comunque necessario assicurarsi il saldo controllo della fascia costiera ucraina che separa la regione separatista dal mare.
La possibilità di un’azione aviotrasportata russa viene a mancare per due motivi fondamentali: il primo è il mancato ottenimento della supremazia aerea (unica condizione tattica per poter effettuare operazioni di questo tipo in relativa sicurezza), il secondo riguarda l’alto tasso di usura delle VDV (Vozdushno-Desantnye Voyska), ovvero delle unità aviotrasportate russe che sono state impiegate dall’inizio del conflitto in operazioni terrestri e hanno subito perdite importanti, e addestrare efficacemente queste unità d’élite non è questione di una manciata di settimane.
Sbarco anfibio? Niet, siamo russi
Tornando alla possibilità di raggiungere la Transnistria via mare, occorre cercare di valutare l’attuale potenziale anfibio/navale russo del Mar Nero.
Lo Stato maggiore di Mosca, nelle settimane antecedenti l’inizio dell’invasione, aveva spostato in quel mare una serie di unità da assalto anfibio provenienti da altri distretti (del Nord, del Baltico, del Caspio).
L’otto febbraio 2022 le navi da sbarco classe Ropucha (o project 775) “Kaliningrad”, “Korolev” e “Minsk”, tutte appartenenti alla Flotta del Baltico, sono state osservate mentre navigavano attraverso i Dardanelli dirette verso il Mar Nero. Altre due Ropucha, la “Georgy Pobedonosets” e la “Olenegorsky Gornyak”, così come una nave da assalto anfibio della classe Ivan Gren, la “Pyotr Morgunov”, tutte assegnate alla Flotta del Nord, erano entrate nel Mar Nero il giorno successivo. Le Ropucha, da 4mila tonnellate di stazza, possono sbarcare fino a 10 Mbt (Main Battle Tank) e 350 soldati direttamente sulla spiaggia, mentre una Ivan Gren può sbarcare 13 Mbt e 300 truppe, oltre a schierare due elicotteri d’attacco, ma abbisogna di infrastrutture portuali.
Nel Mar Nero, a inizio del conflitto, si trovavano quindi in totale nove Ropucha (quattro “residenti”) e la nave da sbarco della classe Ivan Gren che si è aggiunta alle tre navi della classe Alligator (o project 1171) più piccole, insieme a un numero non definibile di mezzi da sbarco di piccolo tonnellaggio.
L’attacco al porto di Berdyansk del 24 marzo scorso, ha colpito e messo fuori combattimento una parte di questa flotta da assalto anfibio: la “Saratov”, della classe Alligator, è stata affondata e ora, recuperata, è ai lavori, danneggiate sicuramente anche almeno due Ropucha nella stessa occasione, mentre altre unità (una Ropucha e una Alligator) risultano essere state bersagliate in attacchi successivi (compresa la serie di assalti ucraini all’Isola dei Serpenti) e non se ne conosce l’attuale stato.
La capacità di assalto anfibio russa nel Mar Nero è stata quindi menomata nel corso della guerra, anche per via dell’utilizzo dei fanti di marina in operazioni terrestri sin dall’inizio dell’invasione, così come avvenuto per le VDV.
Non va nemmeno dimenticato che l’intero strumento navale russo in quel mare è stato pesantemente azzoppato con l’affondamento dell’incrociatore “Moskva” della classe Slava: l’unità, ammiraglia della Flotta del Mar Nero, era infatti un importantissimo centro di comando, controllo e comunicazione (C3) e grazie alla sua dotazione di missili antiaerei imbarcati S-300F forniva un importante ombrello protettivo per le operazioni navali e terrestri nel sudovest dell’Ucraina.
Senza più questo assetto, la Flotta è stata menomata non tanto nella sua capacità di fuoco terrestre o antinave, quanto negli ambiti già indicati, che sono fondamentali per un’operazione di sbarco anfibio in un settore del fronte, quello a sud di Odessa, che ha già dimostrato essere una piccola bolla Anti Access/Area Denial (A2/AD) ucraina (vedere riconquista dell’Isola dei Serpenti).
Le tre fregate classe Grigorovich, le più moderne che la Russia ha nel Mar Nero (e in tutta la flotta), hanno sistemi di livello inferiore rispetto a quelli della “Moskva” e soprattutto montano la versione navalizzata del sistema antiaereo Buk, utilizzante il missile 9M317M/ME, che ha un raggio di ingaggio ben inferiore rispetto agli S-300F. Questo significa che per offrire l’adeguato ombrello protettivo antiaereo, dovrebbero portarsi più sotto-costa, mettendosi nel raggio d’azione dei missili antinave ucraini (Harpoon e forse una o due batterie di autoctoni Neptun).
La dimostrazione dell’efficacia di questa bolla di interdizione, che sfrutta anche velivoli unmanned, è dimostrata dallo spostamento degli assetti più preziosi della Flotta del Mar Nero – i sottomarini classe Kilo nelle varie versioni – dal porto di Sebastopoli a quello di Novorossiysk.
Dal punto di vista dottrinale, poi, abbiamo più volte ripetuto che la Russia non utilizza le truppe anfibie in assalti in grande stile (la sua fanteria di marina, al completo, fa contare 12mila effettivi cioè un decimo dei Marines statunitensi), come avviene in Occidente, ma solo di concerto con l’avanzata terrestre, come avvenuto del resto nel corso della stessa guerra quando c’è stato un piccolo sbarco dietro le linee ucraine tra Mariupol e Berdyansk.
Ci sentiamo quindi di escludere che la Russia possa seriamente minacciare la Moldavia e cercare di raggiungere la Transnistria, sebbene la possibilità di simulare uno sbarco possa essere plausibile ma sconsigliabile: l’Ucraina, infatti, utilizzerebbe le sue restanti forze aeree per cercare di contrastarlo, e molto probabilmente la Russia avrebbe l’occasione di spazzarle via dai cieli, ma sarebbe un’operazione ad altissimo rischio per lo Stato maggiore russo, perché dovrebbe mettere in conto la perdita di qualche unità navale, che non si può rimpiazzare in breve tempo data la chiusura degli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli dall’inizio del conflitto alle unità navali di Paesi belligeranti come da Trattato di Montreux. L’intensa attività ricognitiva della Nato al confine con la Moldavia si spiega, come sempre, nella stessa dottrina militare che vuole che si consideri ogni tipo di possibilità, anche quella meno realistica.