L’Azerbaigian sta consolidando il suo controllo sul Nagorno-Karabakh ponendo fine, almeno per il momento, alla lunga contesa della terra di confine che assiste impietosa all’esodo della popolazione armena. Un esodo alimentato anche dalla paura di ritorsioni delle forze armate azere che la scorsa settimana hanno lanciato una fulminea offensiva e ora si attestano sulle posizioni guadagnate prima dell’accordo di “cessate il fuoco” tra le parti.
A confermare il consolidamento di tali posizioni nella regione, espone il portale di intelligence Bellingcat, ci sono dozzine di dati reperibili in open source che possono dimostrate come e dove le bandiere dell’Azerbaigian vengano issate, mentre lunghe colonne di profughi in fuga traducono la paura della popolazione “sconfitta” ora in cerca d’asilo in Armenia.
Secondo il portavoce del primo ministro di Yerevan, Nikol Pashinyan, sarebbero oltre 70.000 gli armeni che hanno lasciato le proprie case da quando Baku ha lanciato l’offensiva di appena ventiquattro ore che tra il 19 e il 20 di settembre si è dimostrata decisiva. L’enclave, secondo i dati diffusi già in precedenza, accoglieva una popolazione di centomila abitanti di etnia armena. Sarebbero state almeno 200 le vittime delle ostilità che hanno colpito anche la comunità urbana a statuto speciale di Stepanakert, designata come capitale dell’Artsak, che gli azeri invece chiamano Xankəndi.
Testimonianze diffuse dalle fonti di Yerevan raccontano di azioni intimidatorie condotte dai soldati azeri che avrebbero convinto la popolazione armena a lasciare alcuni villaggi, come Vaghuhas. Le lunghe colonne di mezzi che abbandonano Martakert in direzioni del bacino idrico di Sarsang lungo in tratto di strada che sembra essere passato sotto il controllo dell’Azerbaigian, vengono costantemente monitorate dai satelliti e danno una vaga idea della crisi umanitaria in corso.
Intanto su Martakert – chiamata dagli azeri Aghdara, passata sotto il controllo dell’autoproclamato governo armeno del Karabakh nel 1992 e considerata uno dei principali centri abitati del Karabakh lungo la “linea di contatto” tra i due Paesi del Caucaso – ora sventolano le bandiere “Üçrəngli bayraq” azere: gli stendardi tricolore che si fregiano dell’azzurro panturchista, del verde e della mezzaluna dell’Islam. Lo stesso vale nel simbolico villaggio di confine di Charektar, dove nel 1993 si consumò la battaglia di Kelbajar, allora vinta dall’esercito di difesa dell’Artsakh, fedele alla missione di difendere la popolazione di etnia armena presente nella regione.
Dal punto di vista di Baku, che non ha perso occasione per ricordare le problematiche della Transcaucasia, “regione caratterizzata da complessità geopolitica e storiche tensioni”, bisogna certo “giungere a una risoluzione delle problematiche che separano Baku ed Yerevan”, e in seno a tale prospettiva l’Azerbaigian intende impegnarsi nella promozione di “pace e stabilità nel Caucaso meridionale”. Ovviamente non possono nutrire le stesse idee i profughi armeni che tra le lacrime e la disperazione hanno scelto di dare alle fiamme le loro proprie case per lasciare terra bruciata agli azeri. Mentre l’autoproclamata Repubblica di Artsakh viene di fatto disarmata e costretta a capitolare, senza alcun sostegno da parte dei contingenti di sicurezza russi che pure hanno perduto durante i combattimenti alcuni peacekeeper rimasti coinvolti in uno scontro a fuoco tra le fazioni impegnate in combattimento.
Lacerato da trentacinque anni di conflitto e atrocità, scanditi da brevi o lunghe fasi di guerra vera e propria, il Nagorno-Karabakh conteso da Armenia e Azerbaigian – entrambe realtà nate dal disfacimento dell’Unione Sovietica – trova nell’attuale epilogo una stabilità incerta e garantita dalla sola forza, che dovrà percorrere vie diplomatiche aspre quanto complesse per ottenere una reale normalizzazione. Obiettivo che nessuno crede sia ottenibile in tempi brevi. Dai pogrom ai danni della popolazione armena iniziati nella città azera di Sumgait del distante febbraio 1988, all’ultimo colpo di artiglieria sparato in questo vicino 21 settembre 2023, sono tre decenni di sangue che pesano sulla storia di un popolo di frontiera. Tre decenni che non si cancellano con un semplice colpo di mano.