Il 22 settembre di quaranta anni fa, un satellite americano noto come Vela 6911 rilevò un’anomalia che venne immediatamente associata ad un’esplosione nucleare avvenuta in prossimità delle isole del Principe Edoardo, nel bel mezzo dell’Oceano Indiano. A lungo l’evento è stato ritenuto un vero e proprio mistero internazionale, nonostante molti fossero sicuri fin da allora che quello che è passato alla storia come “l’indicente” era in realtà un test nucleare clandestino eseguito da Israele con la connivenza del Sudafrica, e seguito dall’insabbiamento architettato dalla Casa Bianca allora occupata dall’amministrazione Carter. Nell’inchiesta condotta da Foreing Policy  – che ha riunito un team di scienziati, accademici, ex funzionari governativi ed esperti di non-proliferazione nucleare per analizzare tutti dati documenti e declassificati oramai di dominio pubblico – vengono collegate rotte satellitari, report della Cia e l’intervista ad ex-spia sovietica. Tutto per giungere alle conclusioni che consentirebbero di affermare una volta per tutte che il “doppio lampo” che illuminò l’Oceano Indiano alle 00:53 del 22 settembre 1979 sarebbe da ricondurre proprio ad esplosione nucleare.

Il monitoraggio “Vela” e i sospetti

Il cosiddetto “blast” venne rilevato dai bhangmeters del satellite del programma Vela mentre eseguiva la sua rotta di sorveglianza lungo l’Oceano Atlantico Meridionale e l’Oceano Indiano in virtù del Trattato di divieto parziale dei test del 1963 , che vietava i test nucleari nell’atmosfera, sott’acqua e nello spazio, e procedeva al monitoraggio di tutto il globo attraverso una rete di satelliti e centri di osservazione dotati di sensori e strumentazioni per captare le anomalie associabili ad una detonazione nucleare: come ad esempio quelle idroacustiche, o quelle elettromagnetiche.

L’anomalia captata dal satellite Vela 6911 venne considerata fin dal primo momento analoga a quelle registrate da altri satelliti Vela in ben 41 test nucleari precedentemente monitorati. Quella notte infatti, alla Patrick Air Force Base dell’Usaf, in Florida, il personale incaricato di monitorare il satellite registrò l’evento come segno inconfondibile di una detonazione nucleare. Fu allora che il consiglio di sicurezza d’emergenza riunito dagli Stati Uniti mise al vaglio i principali sospetti, restringendo la lista a soli due paesi: il Sudafrica, che si riteneva stesse sviluppando una bomba atomica, e Israele, che era impegnato da oltre un vent’anni nel programma Dimona. Il Pentagono, che era in possesso di una serie di dossier sull’andamento dei programmi nucleari delle altre potenze, decretò in un secondo momento che il programma per l’ottenimento di armi nucleari del Sudafrica – che l’amministrazione Carter stava cercando di fermare come l’amministrazione Kennedy cercò di fermare quello israeliano –  non aveva raggiunto uno stadio sufficientemente avanzato per permettergli di testare un ordigno. Questo poteva ridurre tutti i sospetti ad un unico colpevole: Israele.

La reazione della Casa Bianca e l’insabbiamento

Benché lo stesso presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter scrisse nel suo diario in data 22 settembre 1979 che: “C’era traccia di un’esplosione nucleare nella regione del Sudafrica”, e che la responsabilità poteva essere additata o al “Sudafrica” o a “Israele, che avrebbero impiegato una nave in mare”, o “niente”; e un rapporto del Naval Research Laboratory di 300 pagine (tuttora secretato), lo portasse ad affermare l’anno successivo: “Abbiamo una crescente convinzione tra i nostri scienziati che gli israeliani abbiano effettivamente condotto un’esplosione di test nucleari nell’oceano vicino all’estremità meridionale dell’Africa”; una commissione che contava tra se un premio nobel, numerosi e illustri geofisici ed esperti di ogni branca relativa al settore, concluse ufficialmente nell’ottobre del 1980 che l’Incidente Vela andava associato alla caduta di un meteorite nell’Oceano Indiano. Approssimativamente a 1000 miglia dalle coste del Sudafrica. Proprio vicino alle Isole del Principe Edoardo: arcipelago disabitato ad eccezione di pochi ricercatori asserragliati in una piccola stazione per rilevamenti meteorologici.

Ma perché insabbiare un test nucleare che era apparso “evidente” fin dal primo momento agli americani? L’esclusione dei sudafricani quali artefici del test nucleare, faceva ricadere su Israele ogni eventuale responsabilità. Era infatti molto più verosimile che una potenza come quella d’Israele – tra l’altro beneficiaria di miliardi di dollari di contributi da parte degli Usa – fosse stata in grado di portare avanti con successo il suo programma nucleare “militare”, e che fosse giunta al punto di poterne testarne i risultati. Risultati che però andavano necessariamente “testati” in qualche remoto angolo di Mondo, mediante la connivenza di qualche paese “amico”. Non di certo in Medio Oriente. Tuttavia, un’indagine che avesse dimostrato ciò che Israele voleva palesemente nascondere (negando in più riprese il possesso di un arsenale nucleare tuttora mai dichiarato), terrorizzava la Casa Bianca, che sarebbe stata costretta ad imporre le sanzioni previste dal tratto per la non-proliferazione al sui fidato alleato e compromettendo gli equilibri geopolitici della regione Medio Orientale. Per questo l’ipotetica “violazione” commessa da Israele nel 1979 sarebbe dunque stata insabbiata dall’Amministrazione Carter, che mise in dubbio i dati satellitari captati sostenendo la linea che non si era registrato nessuno caso “caratteristico” di una detonazione nucleare, e dalle successive amministrazioni – sia repubblicane che democratiche – proseguendo a fingere inoltre di non essere a conoscenza di alcuna arma nucleare posseduta dagli israeliani. Atteggiamento che intaccò fortemente la credibilità degli Stati Uniti riguardo il loro impegno nella non-proliferazione.

Il report non “allineato” della Cia

Nel 1980 il report di un team di esperti riunito segretamente dalla Cia, che includeva Harold Agnew, ex direttore del Los Alamos National Laboratory, Richard Garwin, ex progettista di bombe all’idrogeno e Stephen Lukasik, ex direttore della Darpa, fornì un verdetto assai diverso da quello su cui l’Amministrazione Carter fondò la sua linea ufficiale. I dati analizzati ritenevano che i segnali captati dal satellite Vela: “Erano coerenti con il rilevamento di un’esplosione nucleare nell’atmosfera”, ma allo stesso tempo dichiararono che: “I sensori di Vela 6911 erano meno autocoscienti rispetto a solito”. Il riferimento era dovuto al fatto che i due diversi bhangmeters presenti sul satellite non avevano registrato “letture equivalenti” e “parallele” durante la massima intensità del secondo flash prodotto dall’ipotetica detonazione. Gli esperti interpellati dalla Cia hanno inoltre constatato come fosse insolita la scelta di effettuare un test nucleare di notte invece che di giorno. Tuttavia, secondo le loro conclusioni si era trattato della detonazione di un ordigno con una potenza calcolabile tra  gli 1,5 e i 2 kilotoni –  “probabilmente inferiore alla resa del progetto”. Informazioni che sostenevano di un sospetto spostamento di navi vennero rilasciate invece da Dieter Gerhardt, ex-spia al servizio del Gru (servizio informazioni dell’esercito sovietico) allora sotto copertura in Sudafrica.

Le possibile conseguenze di una rivelazione

Fare luce sull’incidente Vela e confermarne la causa associandola ad una detonazione nucleare, non sarebbe una rivelazione priva di conseguenze. Molte potenze, tra le quali si possono annoverare Iran, Corea del Sud, Turchia, Egitto e Arabia Saudita, potrebbero trovare un precedente nell’ammissione di una violazione avvenuta nel 1979, e avvalersene in sedi internazionali per non subire le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dalle altre potenze occidentali firmatarie dei tratti contro la proliferazione nucleare. Questa conferma paleserebbe inoltre l’insabbiamento architettato dall’Amministrazione Carter, e perpetrato dalle amministrazioni successive, evidenziando il diverso atteggiamento che gli Stati Uniti si sono concessi di assumere caso per caso. Le ricerca condotta da Foreing Policy pone la sua attenzione su un altro evento abbastanza peculiare: il caso del programma nucleare indiano del 1974, quando gli Stati Uniti continuarono fornire acqua pesante a Nuova Delhi nonostante fossero venuti a conoscenza del progetto di carattere militare che poi portò allo sviluppo, e al test, della bomba “Smiling Buddha“. La bomba da 12 kilotoni venne testata lo stesso anno, ma il Dipartimento di Stato concluse che l’India non aveva violato in alcun modo l’accordo con gli Stati Uniti: “mentendo al Congresso sull’uso dell’India di acqua pesante americana e continuando le esportazioni di combustibile nucleare degli Stati Uniti a Nuova Delhi”, riportano i documenti consultati da Fp.

Un simile scenario sembra sufficiente a far crollare la credibilità di ogni Trattato di non proliferazione nucleare e del Trattato di divieto parziale dei test, ratificati da quegli Stati che sotto l’ombrello statunitense si sono sempre eretti a tutori del mondo e manutentori della sicurezza che dovrebbe salvaguardare la pace nel mondo. Stati consci delle conseguenze di un messaggio politico portato attraverso la potenza di un’arma nucleare; in primis gli Stati Uniti, che ne impiegarono proprio quella potenza inaudita ad Hiroshima e Nagasaki per affermare la propria supremazia al termine del secondo conflitto mondiale.