“Nel corso degli ultimi dieci anni abbiamo avuto tre seri problemi di sicurezza nazionale: il primo è la Cina, il secondo è la Cina, il terzo è la Cina”. Queste sono le parole di un diplomatico nipponico recentemente espressosi in merito al riarmo del Giappone e ben inquadrano lo spirito che aleggia in quel di Tokyo.
D’altronde basterebbe guardare al bilancio per la Difesa della Cina e a come è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni per capire le apprensioni che si respirano nel Paese del Sol Levante: in un arco di tempo che va dal 2013 al 2017 è cresciuto di un terzo rispetto a meno del 3% di quello del Giappone nello stesso periodo.
Questo senza considerare i continui attriti e “incidenti diplomatici” che riguardano le frontiere marittimedell’arcipelago nipponico ed in particolare quelli riguardanti le contestate isole Senkaku (Diaoyu per la Cina).
Qui lo scontro tra i due giganti economici dell’Asia è più vivo che mai; uno scontro risvegliatosi prepotentemente nel 2012 quando Tokyo ha nazionalizzato alcuni isolotti dell’arcipelago rientranti sotto la sovranità giapponese sin dalla fine dell’Ottocento. Una mossa affatto digerita dalla Cina che rivendica le isole come parte integrante del proprio territorio nazionale, al pari del Mar Cinese Meridionale.
Da quel momento l’attività navale e aerea cinese è andata crescendo e questo non ha fatto altro che mettere in allarme i vertici della Difesa a Tokyo, che, come noto, hanno le mani legate da una Costituzione fortemente limitante per quanto riguarda l’attività delle Forze armate e per le caratteristiche delle stesse.
Il cambio di postura voluto dal premier Shinzo Abe
Questa attività militare della Cina unita alla differente strategia ora più rivolta verso l’espansionismo non solo economico, ha procurato più di un mal di testa a Tokyo tanto che nell’ultimo Libro Bianco della Difesa si scrive – sebbene con linguaggio diplomatico – che non ci si può fidare dell’atteggiamento cinese in politica estera in quanto ha dimostrato, al di là della diplomazia, di volersi espandere aggressivamente nelle proprie acque contigue militarizzando isole – come nel Mar Cinese Meridionale – per creare degli avamposti per il controllo dei mari e dello spazio circostante.
Militarizzazione più volte denunciata anche dall’amministrazione americana che lamenta come Pechino stia innalzando la tensione nell’area con questi atti unilaterali in violazione dei regolamenti internazionali.
Se non bastassero le iniziative di militarizzazione delle isole Spratly nel Mar Cinese Meridionale e le frequenti incursioni di navi militari in quella porzione di Mar Cinese Orientale di competenza nipponica, ci sono i dati incontrovertibili dell’attività della Jasdf (Japan Air Self-Defense Force): solo nei primi nove mesi dell’anno scorso i caccia nipponici si sono levati in volo 476 volte per intercettare aerei intrusori cinesi.
Ecco che quindi in Giappone si pensa di cambiare la costituzione al cui articolo 9 viene espresso il principio di rinuncia di ricorrere al diritto sovrano dell’uso della guerra come strumento di risoluzione delle dispute internazionali. Questo quindi si riflette sull’assetto delle proprie Forze Armate che vengono infatti definite Self Defense Forces (Forze di autodifesa) il cui compito è quello di mantenere il minimo livello necessario di difesa della nazione e pertanto viene escluso il possesso e l’impiego di sistemi d’arma ritenuti offensivi come le portaerei o i bombardieri.
Ma il Premier Shinzo Abe potrebbe scontrarsi con un problema interno, prima che esterno, nella sua marcia per cambiare la costituzione: il 54% dei giapponesi, infatti, si dice contrario perfino a minime modifiche costituzionali rivolte a permettere ai militari giapponesi di avere un ruolo “attivo” nelle missioni di pace sotto l’egida dell’Onu.
Questo spiega perché il Giappone sia ricorso all’escamotage linguistico di definire le due nuove classe Izumo come “cacciatorpediniere portaelicotteri”, con la bizzarra designazione DDH, quando a tutti gli effetti è difficile pensare che un’unità navale con un unico ponte di volo lungo 248 metri per 24mila tonnellate di stazza lorda a pieno carico possa non essere riconosciuta come una portaerei; soprattutto se ha il ponte pieno di F-35 di cui il Giappone acquisterà 42 esemplari della versione B, quella a decollo corto e atterraggio verticale nata proprio per essere impiegata dalle portaerei minori.
Uno “tsunami” di soldi per arginare la Cina
Il Giappone sta vivendo quindi una svolta storica per la sua storia. Una “rivoluzione militare” che viene sostenuta da fior di miliardi di dollari.
Sono 27.500 miliardi di Yen, pari a 244 miliardi di dollari, i fondi stanziati in un arco di tempo che va dal 2019 al 2023 del progetto di Difesa a Medio Termine (Mdt – Medium Terme Defense). Un aumento netto della spesa militare pari a 3mila miliardi di Yen rispetto al quinquennio precedente.
Si potrebbe pensare che questo aumento di spese sia stato pensato per compiacere Washington che, da quando c’è il Presidente Trump, sta “tirando le orecchie” un po’ a tutti i suoi alleati sparsi per il globo affinché aumentino le proprie spese per la Difesa ma non è proprio così.
Il Giappone è invero preoccupato per la probabile latitanza di Washington dallo scacchiere asiatico sulla scorta della brutta esperienza maturata con l’amministrazione precedente.
L’ex Presidente Obama ha infatti seguito una politica di de-escalation preferendo elargire fondi e vendere armi ai propri alleati piuttosto che assicurare una presenza stabile delle Forze Armate statunitensi nei vari teatri del globo.
Non è infatti un caso che la Cina – e a margine la Corea del Nord – abbia intrapreso una politica espansionistica aggressiva nello scacchiere asiatico: là ove si crea un vuoto di potere, di qualsiasi tipo sia, questo viene naturalmente colmato da chi ne ha la possibilità non trovandosi più ad essere ostacolato da chi lo occupava precedentemente.
Se cambiano i rapporti di forza, a sua volta ne cambia la loro percezione, e un Paese come il Giappone, la cui settantennale tradizione pacifista delegava agli Stati Uniti il compito della difesa attiva, si è sentito lasciato solo a fronteggiare un gigante economico e militare come la Cina.
La situazione con l’amministrazione Trump non è cambiata di molto, almeno questo è quello che ha inteso Tokyo, in quanto la politica estera della dottrina “America First”, percepita in qualche modo isolazionista ma non “delegazionista” come quella di obamiana memoria, ha spaventato non poco i vertici della Difesa nipponica.
A ben vedere, però, la situazione dello scacchiere asiatico dipinge uno scenario ben diverso: la Settima Flotta è quella che ha visto con maggior frequenza la presenza di un Csg (Carrier Strike Group) americano negli ultimi due anni, la gestione dell’apice della crisi nordcoreana, con il rischieramento di bombardieri, sistemi missilistici come il Thaad e aumento degli effettivi stanziati nell’area, ha dimostrato che la Casa Bianca non intende abdicare dal ruolo di gendarme dell’area, che sarebbe sicuramente preso da Pechino.
Anche l’attuale situazione del Mar Cinese Meridionale racconta una storia diversa rispetto ad un disimpegno americano: non sono infrequenti i pattugliamenti di unità navali americane che spesso e volentieri incappano in quelle cinesi che causano “incidenti diplomatici” per la sistematica violazione delle regole di ingaggio.
La stessa questione di Taiwan è un po’ un’assicurazione sul fatto che gli Stati Uniti non abbandoneranno il Giappone al suo destino: qualora si giungesse all’irreparabile con la Cina per l’isola ribelle, Washington avrebbe bisogno delle sue basi avanzate nell’area le cui più importanti si trovano appunto nell’arcipelago giapponese.
In quest’ultimo caso lo stesso Giappone sarebbe probabilmente chiamato a partecipareattivamente ad uno scontro armato con la Cina per difendere Taiwan, ed infatti Tokyo sta costruendo nuove basi militari lungo la catena delle isole Ryukyu, dove, tra parentesi, è sita la base Usa di Okinawa: a marzo ne ha aperte due nelle isole meridionali della catena e presto sarà aperta una terza.
Tutt’altro problema sarà, come certi analisti ritengono, la reale efficacia dell’eventuale impegno nipponico. Tokyo avrà davvero la volontà di impegnare i suoi soldati in un conflitto aperto con quindi il rischio di subire perdite? Quando il Premier Abe, nel 2017, inviò le proprie truppe in Sud Sudan, affermò che le avrebbe immediatamente ritirate in caso si fosse versata anche solo una goccia di sangue. Non propriamente una buona messa in pratica dei dettami del Bushido.