Il generale Fabio Mini vanta un curriculum militare di tutto rispetto: tra i vari incarichi è stato Capo di Stato Maggiore Esercito tra il 1993 ed il 1996 e Capo di Stato Maggiore per il comando Nato Sud Europa oltre ad aver comandato il contingente della missione Kfor in Kosovo.
Il generale, terminata la sua vita militare, è diventato commentatore di geopolitica e strategia per Limes, l’Espresso, Repubblica e recentemente ha iniziato a collaborare per Il Fatto Quotidiano, ma in rete è anche conosciuto per le sue posizioni poco ortodosse, per così dire, sulle scie chimiche. Mini infatti si definisce scettico delle spiegazioni standard in relazione alla possibilità che certe tecniche possano venire impiegate in guerre ambientali: “il controllo del clima è un fattore di potenza” ha sostenuto in un’intervista visibile online su di un sito complottista, pertanto non esclude che ci possa essere una qualche forma di ricerca per ottenere un controllo militare dello stesso.
A dire il vero non è nulla di nuovo, sono decenni che si irrorano le nuvole con ioduro d’argento affinché faccia da nucleo di aggregazione per l’umidità e provochi la pioggia (metodologia che con le “scie chimiche” non c’entra nulla, sia chiaro), ma forse il generale si riferiva ad un controllo più complesso e totale del clima, che è materia buona per chi pensa che si possano creare catastrofici terremoti artificiali non considerando – o forse volutamente ignorando – gli ordini di grandezza geologici e la quantità di energia in ballo in un evento simile.
Ma veniamo al punto. In una recente intervista a La Verità il generale Mini si scaglia senza troppi complimenti contro il programma F-35 definendolo, oltre che esoso, anche di dubbia utilità per la Difesa italiana.
Le perplessità del generale sull’F-35
Secondo il generale uno dei dubbi sull’utilità degli F-35 sarebbe quello che gli Stati Uniti puntano, citiamo letteralmente “alla creazione di una flotta aerea da utilizzare, nel giro di qualche anno, contro la Russia, col rischio di ritorsioni che coinvolgerebbero solo l’Europa”. Intendendo con questo, forse, che gli F-35 sarebbero uno strumento di attacco dato a noi europei che scatenerebbe una ritorsione russa lasciando fuori gli Stati Uniti. Qui c’è la nostra prima perplessità. Se è vero che un cacciabombardiere come l’F-35 è stato studiato per penetrare le difese avversarie, come tutti i cacciabombardieri peraltro, non si capisce, nella logica del Pentagono e della Nato di cui facciamo parte, quale altro avversario dovrebbe esserci nel teatro europeo se non la Russia.
Dal punto di vista Nato la Russia rappresenta un rivale di primo livello in Europa e tra le prime minacce per la sicurezza degli Stati Uniti secondo il Pentagono. Non è un mistero, sebbene questa lettura che viene data da Bruxelles ha bisogno di una particolare analisi e contestualizzazione che consideri l’allargamento della Nato verso oriente, come abbiamo sempre più volte ribadito su queste colonne. L’F-35 è un velivolo nato nei primi anni ’90 (il programma definitivo Jsf – Joint Strike Fighter è del 1995) in un’epoca in cui l’Unione Sovietica era sparita e non era più una minaccia ma che guardava con lungimiranza ai futuri scenari di guerra aerea ad alta concentrazione di elettronica ostile, quindi un velivolo nato per ottenere la supremazia su qualsiasi campo di battaglia, fattore valido ovunque ed in ogni tempo, non solo in funzione “anti russa”.
C’è poi da considerare che le ritorsioni di cui parla il generale, in caso di un conflitto tra la Nato e la Russia, non si limiterebbero solamente al teatro europeo, ma coinvolgerebbero con le nuove armi ipersoniche (missili da crociera in particolare) anche gli asset americani sparsi nel mondo sino ad arrivare, con ogni probabilità, ad un attacco verso il territorio metropolitano americano e all’eventuale utilizzo di armamenti atomici strategici (oltre che tattici in prima battuta) in una facile e prevedibile escalation del conflitto nato in Europa. Affibbiare all’F-35 il ruolo di “arma destabilizzante” e controproducente per l’Europa è un po’ troppo, anche considerando gli attuali sviluppi strategici che riguardano la fine del Trattato Inf ed il ritorno della corsa agli armamenti missilistici a raggio intermedio da parte di Russia e Stati Uniti.
Il generale Mini poi, sempre su questo punto, afferma che l’F-35 abbia “capacità idonee più per l’aggressione e la guerra fredda che per la difesa”. Sì, un aereo come l’F-35 nasce per penetrare le difese nemiche, quindi per l’aggressione, così come erano le specifiche del Tornado peraltro, aereo che è stato la spina dorsale della nostra flotta da attacco nell’AM. Non capiamo questa risposta “pacifista” del generale, soprattutto perché un uomo che ha passato la sua vita sotto le armi dovrebbe avere ben chiaro il concetto di deterrenza e di credibilità della minaccia che garantisce, oltre alla stabilità, che un nostro avversario non decida di prendere con la forza quello che non è riuscito a prendere con la diplomazia forte dell’altrui debolezza militare.
Il problema dei costi dell’F-35
Veniamo ora all’annosa questione dei costi del programma F-35. Negli ultimi anni se ne sono lette di ogni da detrattori e da fan accaniti dell’aviogetto della Lockheed-Martin a cui partecipiamo attivamente come partner di produzione – sebbene di seconda linea ma un gradino più avanti di altro come la Turchia – avendo una delle uniche due Faco (Final Assembly and Check Out) al mondo sita al di fuori del territorio statunitense a Cameri, in provincia di Novara.
Il generale qui mischia un po’ le carte. Oltre a dire che “i costi unitari (dell’F-35 n.d.a.) dovrebbero scendere a 95 milioni di dollari ma questi calcoli non sono certi”, afferma che sia una certezza che i costi “operativi e di supporto” che erano inizialmente “di 17,2 miliardi di dollari” oggi per i nostri 90 velivoli divisi tra Aeronautica Militare e Marina Militare superino i “40 miliardi di euro”.
Aggiunge poi che “i prossimi aerei consegnati all’Italia avranno ulteriori incrementi di costi. Ogni cacciabombardiere verrà a costare 110 milioni di euro (versione A) e 130 milioni (versione B)”. Questi però sono i prezzi che risalgono al taglio effettuato dal governo Monti (da 131 a 90 macchine), quindi abbastanza datato in un periodo di oggettiva difficoltà del programma ora in fase di assestamento grazie anche alla maggiore produzione e al conseguimento, da più parti, della Ioc (Initial Operational Capability). Sulla sua inutilità poi, chiedere a Israele cosa ne pensa.
È bene precisare che i costi unitari di un F-35 dipendono dalla versione, con la versione Stovl (Short Take Off and Vertical Landing) più costosa per ovvi motivi.
Si può stimare il costo medio di ciascun velivolo, comprensivo dei 741 destinati per gli altri Paesi utilizzatori, in una forbice che varia tra i 77,5 milioni di dollari per la versione A, sino ai 104,2 per la versione B passando per gli89,8 per la versione C. Questi valori sono ovviamente delle stime calcolate dividendo il costo complessivo del programma per il numero totale degli esemplari che saranno prodotti.
Diverso però è il costo effettivo. A causa dei ritardi accumulati dagli innumerevoli difetti di cellula e dotazioni elettroniche i costi sono lievitati enormemente per poi scendere: è stato calcolato l’anno scorso che, se il rateo di acquisizione resterà lo stesso, il costo di un F-35A nel 2019 sarà compreso tra gli 80 e gli 85 milioni di dollari per i velivoli del lot 13, un valore confrontabile con quello dei caccia di quarta generazione.
Attualmente, come evidenziato da più fonti specializzate, il costo di un F-35A si aggira sui 90 milioni di dollari, un valore destinato a calare ulteriormente a fronte delle nuove commesse che arrivano da più parti per il velivolo di quinta generazione. Il principio è infatti “produrne di più per pagarne di meno”.
Per quanto riguarda il costo complessivo del programma, quindi il costo di gestione della macchina in ambiente operativo, è sì di 40 miliardi di euro, ma questi vanno spalmati su tutta la vita operativa dei velivoli che, ovviamente, non sarà affatto breve avendo in previsione un utilizzo almeno sino al 2035/2040 quando è ragionevole supporre che arriveranno i primi caccia di sesta generazione.
Non è pensabile uscire dal programma F-35
Non entriamo nel merito della recente diatriba che ha visto contrapposta l’Aeronautica alla Marina per quanto riguarda la gestione degli F-35, con il generale Vecciarelli, Csm Difesa, che sembrerebbe aver detto che “tutto quanto vola è dell’Aeronautica” generando le ire dell’ammiraglio Girardelli, Csm Marina. Non è certo per colpa degli F-35 se le due forze armate sono entrate “in conflitto”, del resto c’è sempre stata una certa rivalità da quando la Marina si è dotata di una componente aerea ad ala fissa (gli AV-8B Harrier II). Non è certo colpa dell’F-35 se Grottaglie, che dovrebbe essere la base degli F-35B targati MM, non è stata ancora adeguata ai nuovi standard per gestire il velivolo ed Amendola per ora resta l’unico hub in Italia in grado di farlo. Le cause, semmai, vanno ricercate, come sempre accade, nella politica che vede il bilancio della Difesa come a un serbatoio di risorse a cui attingere con continui tagli, come ha fatto anche quest’ultimo governo gialloverde, ma in questo caso più giallo che verde.
Vogliamo fare una domanda al generale: quale alternativa avrebbe l’Italia, oggi, nel 2019, se volesse decidere di non procedere all’acquisizione degli F-35? Cosa esiste di pari livello sul mercato? Tralasciando le penali che ci vedremmo costretti a pagare e la chiusura del Faco di Cameri con conseguente perdita di posti di lavoro diretto e nell’indotto, non è ipotizzabile, a questo punto, sfilarsi dal programma: un progetto complesso come quello di un caccia di quinta generazione richiede, come abbiamo visto, molti anni per la sua mesa a punto e l’Italia non potrebbe, ora, “fare da sè” senza correre il rischio di trovarsi con un velivolo, tra 15 o 20 anni, già obsoleto. Anzi, la partecipazione attiva italiana al programma ci permette di avere accesso a nuove tecnologie e nuovi stimoli industriali che permetteranno alla nostra industria aerospaziale di acquisire e migliorare il know how in vista del futuro caccia di sesta generazione.