Si cominciano a delineare vincitori e vinti in Iraq e Siria, le aree più calde del Medio Oriente. Per la prima volta dopo anni, Baghdad e Damasco sono libere da bombardamenti e attacchi d’artiglieria. Quelle che erano le capitali de facto dell’Isis, Mosul e Raqqa, sono cosparse di rovine e fosse comuni. La guerra che negli ultimi sette anni ha inghiottito il territorio compreso tra il confine iraniano e il Mediterraneo sta per concludersi, almeno nella sua fase presente.

La paura si dissolve più lentamente rispetto alle cause che la provocano. L’anno scorso mi trovavo a Baghdad quando alcuni miliziani dello Stato islamico hanno rapito e ucciso otto giovani funzionari governativi su una strada a nord della città. L’episodio, seppur di minore portata rispetto alle atrocità compiute precedentemente dall’Isis, ha seminato il panico tra i miei amici iracheni. Dicevano di temere il ritorno a un incubo ancora recente, quando i giovani iracheni si facevano tatuare il corpo affinché, se la situazione fosse volta al peggio, le loro famiglie avrebbero potuto identificare i loro corpi mutilati.

Chi, per anni, ha ricevuto soltanto pessime notizie è diffidente rispetto a qualunque ipotesi di miglioramento. Ma la realtà è che l’Isis è stato distrutto, ad eccezione di alcuni combattenti asserragliati nei grandi deserti dell’Iraq occidentale e della Siria orientale. I governi occidentali esitano a riconoscere la disfatta dello Stato islamico in quanto l’emergenza esplosiva del Califfato provocò uno choc così violento che adesso temono di dichiarare vittoria prematuramente.

Combattere fino alla morte come testimonianza della fede islamica

Molti ritengono che l’Isis sia allo sbaraglio, ma che l’ideologia sopravviva e continui a rappresentare una minaccia. In questa interpretazione c’è qualcosa di vero, ma non molto, perché la tradizionale formula di Al Qaeda – combattere fino alla morte come testimonianza della fede islamica – non ha più il successo di una volta. L’Isis è stato un culto islamico militarizzato che ha ottenuto vittorie incredibili, come ad esempio la cattura di Mosul, contro forze superiori. Ai suoi seguaci, questi successi sono sembrati di ispirazione divina, ma oggi l’Isis non può offrire alle potenziali reclute null’altro che la sconfitta, sia sul piano militare che ideologico.

Infografica di Alberto Bellotto

Ovviamente, la guerra contro l’Isis è solo una delle molteplici crisi che attanagliano la Siria, l’Iraq e il resto del Medio Oriente, che è diventato l’arena dove le potenze internazionali e regionali combattono le loro differenze. Molte di queste dispute sono ancora in corso, ma in un conflitto il vincitore è evidente, ed è Bashar al Assad, che l’Occidente dava per sconfitto, ma che continuerà a governare una Siria territorialmente ridefinita. Quella che era essenzialmente una rivolta degli arabi sunniti contro gli sciiti e i regimi a leadership sciita nella fascia settentrionale del Medio Oriente (Iran, Iraq, Siria e Libano) è fallita.

È possibile che si apra una nuova fase nel conflitto con l’Iran, con i suoi rivali guidati dal presidente Donald Trump, dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dal principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman (MbS)? Potrebbe accadere. Tuttavia, Trump e Netanyahu hanno dimostrato fino ad ora di essere leader che tendono a minacciare una guerra invece di combatterla. Al contrario, MbS ha la reputazione di far seguire a dichiarazioni aggressive atti di guerra (il bombardamento dello Yemen, il rapimento del primo ministro libanese e l’assassinio di Jamal Khashoggi), ma il suo tasso di insuccesso è elevato.

Ivo Saglietti, Iraq, Kirkuk, 2012

Le sanzioni terranno l’Iran sotto pressione, ma è improbabile che producano il regime change tanto auspicato da Washington. I nemici dell’Iran stanno agendo con troppo ritardo, dato che ormai Teheran siede dalla parte dei vincitori in Iraq e Siria. Nonostante la demonizzazione da parte di Trump dell’Iran, identificato come fonte di tutti i mali del Medio Oriente, Teheran ha un’influenza quasi del tutto confinata ai Paesi dove c’è una grande popolazione sciita.

La rivolta degli arabi sunniti e la debolezza dei governi di Baghdad e Damasco hanno aperto le porte ai curdi. Questi hanno espanso il loro territorio e creato estesi Stati de facto, che rischiano però di esser vulnerabili rispetto a ciò che potrebbe accadere il giorno dopo la caduta dell’Isis. In Iraq hanno forzato la mano e, per questo, sono stati puniti nel 2017, quando una potente armata irachena, che aveva appena conquistato Mosul, ha poi proseguito per espugnare Kirkuk.

In Siria i curdi sono più prudenti in questa fase di preparazione al ritiro delle truppe Usa, perché li costringerà ad affrontare le armate turche e siriane. Nel caso di un’avanzata di Ankara, potremmo assistere ad un ulteriore periodo di pulizia etnica che porterà due milioni di curdi a fuggire, sospinti dall’avanzata delle forze armate turche. Il potenziale ritiro di 2mila soldati Usa ha suscitato diverse discussione, ma queste forze sono solo una linea di difesa la cui importanza consiste nella loro abilità di far intervenire devastanti incursioni aeree. E c’è anche la possibilità che i turchi decidano di rischiare un intervento americano contro una potenza alleata.

La Turchia avrebbe dovuto emergere in maniera più netta come vincitrice del caos esploso sul suo confine meridionale nel 2011. Ha invece in gran parte fallito perché ha tollerato o sostenuto jihadisti sunniti e al tempo stesso è intervenuta in una regione dove c’erano grandi – e in alcune aree dominanti – comunità sciite e curde.

C’è stato un momento in cui tutte le monarchie del Golfo, dopo il 2011, sembravano destinate a diventare le nuove potenze predominanti in Medio Oriente. MbS era elogiato da Trump e corteggiato dagli europei, ma – come già avvenuto per altri leader di Stati ricchi di petrolio, quali Saddam Hussein e Muammar Gheddafi – si sta rendendo conto che una grande ricchezza non compra necessariamente capacità operative. In passato, l’efficacia saudita è dipesa dalla stretta alleanza con gli Stati Uniti, mentre adesso, per la prima volta, il Regno e MbS vengono trattati come paria. “Si comporta da vero gangster”, ha dichiarato il senatore Marco Rubio, in un sorprendente intervento.

La Russia è stato il grande vincitore della guerra

La Russia è stato il grande vincitore della guerra siriana perché il conflitto le ha permesso di ristabilire il suo status di grande potenza. Può trattarsi anche solo di mera percezione, in quanto la Russia non ha mai cessato di essere una super-potenza nucleare, ma non per questo è meno significativo.

La Russia ha mantenuto il proprio alleato Assad al potere nonostante molteplici sfide al suo governo e molti altri Paesi hanno compreso che la Russia protegge i propri alleati. E in questi anni, una processione di leader mondiali si è incamminata verso Mosca.

Ci troviamo di fronte a un Medio Oriente nuovo e più stabile? Ci sono seri dubbi al riguardo: negli ultimi quarant’anni la regione è stata gettata nel caos ogni dieci o undici anni da qualche evento spettacolare che nessuno aveva previsto. Nel 1979/80 ci fu la Rivoluzione iraniana e lo scoppio della guerra tra Iran e Iraq; nel 1990-1991 fu la volta dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein e della Prima guerra del Golfo; nel 2001 fu l’attacco dell’11 settembre a causare il coinvolgimento Usa nelle guerre in Afganistan e in Iraq; nel 2011 fu la cosiddetta Primavera araba a provocare una nuova e inattesa ondata di instabilità. Se questo ritmo non cambia, ci restano due o tre anni prima che la prossima catastrofe colpisca il Medio Oriente.

Foto in apertura di Francesco Cito, Palestina, 1993





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