I villaggi e le città più grandi dell’Afghanistan cadono uno a uno come tessere di un domino che arriva dritto fino a Kabul. I talebani hanno avviato il loro lungo e inesorabile assedio per circondare la capitale. Hanno tagliato vie di comunicazione e rifornimenti, hanno conquistato province contese, hanno assunto il controllo di città dove fino a qualche settimana fa campeggiavano le bandiere delle forze occidentali. Gli studenti coranici hanno adottato le migliori tattiche di guerriglia, tipiche di chi vive negli altopiani e sin da piccolo è addestrato a imbracciare il fucile. Ma quello che è risaltato agli occhi di tanti osservatori è che le forze di sicurezza afghane, quelle addestrate dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti e dalla Nato, hanno in larga parte deposto le armi. Molti combattono strenuamente. Ma tanti, troppi, hanno deciso di ritirarsi o di abbandonare immediatamente la lotta.

Sono in molti a chiedersi cosa non abbia funzionato nell’addestramento di queste unità. Parliamo di circa 350mila uomini che di punto in bianco sembrano essersi dissolti di fronte all’avanzata di un esercito che al massimo può contare su un terzo delle forze rispetto alle truppe di Kabul. Certo, la guerriglia talebana conosce il territorio e tattiche che utilizzano da tempo immemore. Tuttavia non può negarsi una certa sorpresa di fronte non tante alle vittorie talebane, quanto all’inconsistenza di una parte importante delle forze di sicurezza.

Gli errori e le difficoltà occidentali

Difficile dire di chi sia la colpa. Probabilmente è un fattore congenito nella storia dell’Afghanistan, che non a caso è considerato come la famigerata “tomba degli imperi”. Più pragmaticamente, per capire questa grande ritirata sono fondamentali le parole del generale Marco Bertolini intervistato da Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera. L’ex capo di Stato Maggiore Isaf ha usato parole molto chiare: “Noi miravamo a occidentalizzare l’Afghanistan cercando di imporre i nostri sistemi democratici. Ma loro hanno tradizioni del tutto differenti. Per esempio, non hanno partiti. I pashtun sono un’etnia legata a tradizioni locali, e così gli hazara o i tagiki. Ci siamo illusi che l’accoglienza calorosa riservataci dalle élite cittadine rappresentasse il Paese intero. Ma la maggioranza sta nelle campagne, sulle montagne, tra i villaggi e ci ha sempre guardato con sospetto, se non aperta ostilità”. Questa difficoltà nel comprendere la vera realtà del Paese ha fatto sì che molto spesso il ritorno dei talebani fosse semplicemente una costante una volta terminate le operazioni delle forze occidentali insieme a quelle locali. Un fatto che hanno sottolineato molti analisti, per esempio, è che i talebani molto spesso non hanno conquistato territori: hanno semplicemente fatto l’ingresso in città dove di fatto non esisteva lo Stato e in cui i ribelli solo formalmente non erano al potere.

A questo si aggiunge poi un errore, forse di natura ideologica, sulla costruzione di un esercito in grado di sconfiggere i talebani sul campo. Con l’aviazione praticamente azzerata e con i cieli in mano agli Stati Uniti, l’opzione era quella di addestrare le truppe di terra. Il problema è che costruire un esercito non è molto diverso – a livello culturale – di voler costruire un Paese su basi che non sono considerate naturali. Così come è impossibile occidentalizzare un Paese e imporne i metodi di governo, altrettanto complicato è pensare di realizzare delle forze armate su un modello alieno quando i guerriglieri locali sono invece il frutto di un sistema radicato. Tanto è vero che i cosiddetti signori della guerra hanno in realtà mostrato ben più vigore e capacità operative di tanti battaglioni delle forze di sicurezza.

Questo ovviamente non significa che tutte le forze di sicurezza afghane non abbiano combattuto o non lo stiano facendo. Come raccontato da Fausto Biloslavo per il Giornale, la testimonianza di chi è stato addestrato in Italia e ha combattuto a Herat dimostra come migliaia di uomini delle forze speciali non si sono arresi. E combattono fino all’ultimo proiettile disponibile. E quindi esiste chi, addestrato dalle forze dell’Occidente, ha saputo resistere e non è indietreggiato.

Dove erano le forze Nato

La missione in Afghanistan parte con un vulnus che si è poi esteso nel tempo. Il Pentagono e Londra ritenevano che fossero loro a dover gestire la parte “combat”, mentre agli altri andava data una forma di “peacekeeping”. Ne è uscita una composizione ibrida che ha di fatto paralizzato molto spesso l’avanzata contro i talebani, facendo credere che tutto fosse finito con una “operazione di pace”. Il passaggio a Resolute Support non ha fatto poi che ampliare questa idea.

Con Resolute Support, l’Afghanistan era stato diviso in diverse aree geografiche in base ai punti cardinali più l’area di Kabul. Queste aree erano state assegnate alla responsabilità di diversi Paesi che contribuivano all’addestramento e all’assistenza delle forze di sicurezza afghane per il sostentamento a lungo termine.

La TAAC-South comprendeva le province di Kandahar, Uruzgan, Zabul e Daykundi oltre al territorio dell’Helmand. I Paesi coinvolti erano Bulgaria, Polonia, Romania, Ucraina e Stati Uniti d’America. TAAC-West, invece, come scrive il sito di Resolute Support aveva come obiettivo l’addestramento del 207° Corpo dell’Esercito Nazionale Afghano e del Comando Provinciale di Polizia nelle province di Badghis, Farah, Ghor e Herat. Qui aveva il comando l’Italia e vi erano i contributi di Albania, Ungheria, Lituania, Romania, Slovenia, Ucraina e Stati Uniti d’America. La TAAC-North, a guida tedesca, comprendeva le province di Badakhshan, Baghlan, Balkh, Faryab, Jowzjan, Kunduz, Samangan, Sar-e Pul e Takhar. Il comando era a Mazar-i-Sharif. A Est, invece c’erano forze americane e polacche. Per quanto riguarda la missione che comprendeva la provincia di Kabul, questa era sotto il comando turco e contribuivano Albania, Azerbaigian, Repubblica Ceca, Repubblica di Macedonia del Nord e Stati Uniti.

Un compito quasi impossibile

È difficile provare a mettere in parallelo le forze presenti, l’addestramento effettuato e i risultati dell’avanzata talebana. Difficile ma anche ingiusto, dal momento che per quanto riguarda l’Italia, per esempio, l’addestramento è stato fruttuoso. Ma partiva anche da pessime regole di ingaggio e da difficoltà molto elevata del territorio in cui operava. Lì combatteva anche il signore della guerra Ismail Khan. Lì combattevano, prima della caduta, molti soldati addestrati dall’Italia ma collaboravano anche molti afghani che rischiano di essere abbandonati a un tragico destino, come ricordato da il Giornale e da diversi esponenti politici, tra cui Lorenzo Guerini, Pierferdinando Casini, Matteo Perego di Cremnago.

Tuttavia esistono aree in cui l’esercito afghano si è praticamente sciolto come se non fosse mai esistito. Alcune città del nord sono cadute senza sparare un colpo, tante altre hanno ceduto le armi. Molte aree del sud sono cadute nonostante si pensasse a una difesa decisamente più strenua. E anche nella parte orientale, i talebani hanno conquistato Sharana, Mehtarlam e Asadabad e Mihterlam. A resistere è a questo punto solo Kabul, dove i talebani vogliono entrare in sicurezza per un accordo di governo. E dove gli unici che resteranno sono probabilmente i turchi, i quali già si sono mossi per mantenere un presidio militar nell’aeroporto della capitale.

Sembra che si sia realizzato quello che ha descritto con dovizia di particolari il generale Bertolini: si aveva solo l’impressione di avere il territorio. Ma a quanto pare si aveva anche l’impressione di aver costruito forze armate che in realtà non c’erano. In tanti luoghi la corruzione aveva già devastato il fragile collegamento col potere centrale. Ed è bastata la sola guerra psicologica talebana o l’aspirazione ad avere più soldi per cambiare casacca. Tanti soldati, di fatto, erano come molti poliziotti “personale ombra”, totalmente assenti e da non computare nel novero dei militari al servizio di Kabul. Molte forze hanno fallito nell’addestramento. Sicuramente l’Occidente non è riuscito a imporre una struttura adeguata. Ed è un errore che si rischia di replicare ora anche in Africa centrale, in Sahel, e in altre aree del Medio Oriente. Di fronte a forze radicate sul territorio, non basta la tecnologia.

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