Sono passate due settimane esatte dall’attacco di Hamas contro Israele. Due settimane esatte quindi dalla peggiore azione subita dallo Stato ebraico negli ultimi decenni, capace di mettere fortemente in discussione le storiche certezze sulla sicurezza israeliana. In questi quindici giorni si è discusso molto circa la reazione contro il movimento islamista autore delle atrocità documentate nei vari kibbutz attorno la Striscia. Al momento, la risposta israeliana è stata affidata ai continui raid che hanno coinvolto principalmente Gaza City. Il vero dilemma però riguarda la possibilità di un’azione di terra. Se ne parla da giorni, ma il via libera da parte del governo non è arrivato. E questo introduce non poche considerazioni di rango politico.

I soldati schierati vicino la Striscia

Subito dopo l’attacco, l’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu ha inviato centinaia di uomini e mezzi nel sud di Israele. E questo non solo per rispedire indietro i terroristi, penetrati tra il 7 e l’8 ottobre fino a più di 25 km all’interno del territorio israeliano. Ma anche per preparare l’offensiva di terra dentro Gaza. Del resto, una risposta del genere è attesa tanto dall’opinione pubblica israeliana, sgomenta e sotto shock per l’attacco subito, quanto dagli stessi combattenti di Hamas. Questi ultimi, stando anche alle ricostruzioni emerse nei giorni successivi alla loro azione, sono sempre stati ben consapevoli di attirare Israele verso la Striscia.

A confermare l’ampia possibilità di un’operazione di terra, anche la dichiarazione di stato di guerra ratificata ufficialmente dal parlamento l’8 ottobre scorso. Una condizione che ufficialmente in Israele mancava dal 1973, anno del conflitto dello Yom Kippur. Arrivare a una dichiarazione del genere, implica necessariamente la preparazione di piani militari su larga scala e capaci di prevedere, tra le altre cose, anche interventi diretti e di terra contro le principali basi di Hamas. Dopo due settimane però al momento il dilemma non sembra essere stato sciolto. Militari e riservisti sono pronti, molti generali hanno detto loro che presto vedranno Gaza dall’interno, ma i mezzi appaiono ancora spenti.

La visita di Biden

C’è chi aveva scommesso sull’inizio delle operazioni subito dopo la visita del presidente Usa Joe Biden in Israele. Il capo della Casa Bianca ha incontrato a Gerusalemme il premier Netanyahu nella giornata di mercoledì. Ma il vertice è servito forse più a dissuadere che a convincere gli israeliani dal proposito di iniziare un’operazione di terra.

Biden ha sì ribadito e confermato il sostegno a Israele, annunciando peraltro giovedì da Washington un piano da almeno 14 miliardi di dollari in aiuti militari. Al tempo stesso però, molte voci di corridoio hanno indicato come il presidente Usa al momento predichi una maggior prudenza su Gaza. In primis, per un discorso prettamente umanitario: gli Stati Uniti sono preoccupati che l’uso della forza possa causare ulteriori lutti alla popolazione palestinese della Striscia, già molto provata dalle due settimane di bombardamenti.

Non è un caso che la diplomazia Usa nelle ultime ore sia risultata molto attiva nell’opera di mediazione con l’Egitto per l’apertura del valico di Rafah, l’unico che collega la Striscia al Paese nordafricano. L’apertura di questa frontiera, permetterebbe a molti civili di Gaza di mettersi in sicurezza e ricevere aiuti umanitari. La visita di Biden ha quindi forse avuto come effetto quello di posticipare l’operazione di terra, seppur in un’ottica di continuativo sostegno Usa a Israele e al diritto dello Stato ebraico di difendersi. Il dilemma quindi, dopo la partenza del capo della Casa Bianca, non è stato sciolto.

Il rischio escalation

Non è però soltanto il versante umanitario a preoccupare gli Stati Uniti. Lo spettro più importante riguarda il rischio escalation. L’incendio in uno degli ospedali di Gaza avvenuto martedì, sulle cui responsabilità Hamas e Israele continuano ad accusarsi a vicenda, ha provocato vasti movimenti di protesta all’interno dei territori palestinesi e del mondo arabo. Il timore è che l’ingresso dei militari israeliani a Gaza possa trasformarsi nel detonatore in grado di far definitivamente deflagrare il medio oriente.

Le preoccupazioni però non riguardano unicamente la regione. Subito dopo gli assalti di Hamas, in tutta Europa e negli Stati Uniti sono state aumentate le misure di sicurezza. I recenti attentanti in Francia e in Belgio, compiuti da “lupi solitari” simpatizzanti dell’Isis, hanno confermato i timori: le tensioni in medio oriente, al netto della possibilità di intervento diretto di Israele a Gaza, hanno già fatto aumentare i rischi per la sicurezza nel Vecchio Continente e negli Usa. Un’azione di terra israeliana potrebbe portare a gravi problemi in tutto il contesto occidentale. Circostanza che Washington, specialmente in questa fase, vorrebbe evitare.

Il dilemma israeliano dunque resta. E le parole pronunciate a inizio settimana dal portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hecht, non sembrano dissipare i dubbi. “Israele – ha detto alla stampa locale – si sta preparando per le prossime tappe nella guerra contro Hamas, ma i piani potrebbero essere diversi dall’attesa invasione via terra della Striscia“.

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