La posizione diplomatica della Finlandia ha sempre rappresentato un esempio di un complesso sistema di convivenza tra Oriente e Occidente nell’epoca della Guerra Fredda. La sua neutralità, che non ha significato in realtà indifferenza né smilitarizzazione quanto non appartenenza ad alcuno dei due blocchi militari (Nato e Patto di Varsavia), è stata un elemento essenziale del secondo Novecento europeo. E fino alla stabilizzazione della guerra in Ucraina, convertita in una vera guerra di attrito, la cosiddetta “finlandizzazione” era ritenuta una possibile forma di accordo tra Russia e Stati Uniti.

Il processo di “finlandizzazione”

Per comprendere il motivo di questo paragone rispetto alla situazione che viveva (e vive) l’Ucraina, bisogna partire dal dato storico, cioè da cosa ha originato il concetto di “finlandizzazione”. In sintesi, sebbene il nome in sé nasca negli Anni Cinquanta, la nascita di questa politica deve farsi risalire al periodo della Seconda guerra mondiale, quando la Finlandia combatté l’Unione sovietica in due distinti conflitti in cui mostrò una notevole capacità di resistenza. Nella fase finale del secondo conflitto, la “guerra di continuazione”, Helsinki, sotto la guida di Carl Gustaf Emil Mannerheim, scelse di non appoggiare l’alleato tedesco nell’assedio di Leningrado aprendo all’armistizio con il Cremlino.

L’Urss accettò l’accordo imponendo pesanti cessioni territoriali alla Finlandia ma consentendole di rimanere autonoma. Una scelta dettata anche dal fatto che Mannerheim, abbandonando l’alleato nazista, diede una grossa mano ai sovietici, i quali avevano già constatato le enormi difficoltà nel combattere contro le forze finlandesi.

Il successore di Mannerheim, Paasikivi, avviò in maniera formale il percorso di indipendenza e amicizia con l’Unione Sovietica, che fu a sua volta seguito dallo storico presidente Urho Kekkonen. Quest’ultimo, leader dal 1956 al 1981, riuscì a creare quella forma di neutralità attiva di Helsinki per la quale la Finlandia si contraddistinse nella diplomazia internazionale come ponte tra i due blocchi, entrando a far parte delle organizzazioni mondiali e regionali non viste come nemiche di Mosca.

Con la caduta dell’Urss, si deve poi al presidente Mauno Koivisto il processo di adesione all’Unione europea. Una richiesta che comunque fu dettata ancora da forti contrasti interni alla politica locale: segno che la popolazione era profondamente convinta della bontà di una posizione completamente al di fuori dei blocchi.

In questo periodo, si fa largo il concetto di “finlandizzazione”: un modo di vivere dei governi di Helsinki che se da un lato viene visto come un esempio di equilibrio tra i due blocchi grazie all’esistenza di Paesi neutrali o “cuscinetto”, dall’altro lato viene aspramente criticata per essere stata di fatto una scelta di neutralità causata dalle imposizioni di Mosca in base all’armistizio. Le visioni chiaramente sono spesso del tutto antitetiche e non è questa la sede per un giudizio complessivo sulla vicenda finlandese.

La svolta e l’ingresso nella Nato

Quello che però appare certo è che la guerra in Ucraina, con l’adesione del Paese scandinavo ala Nato, ha mutato radicalmente la tradizione strategica di Helsinki, Ed è stata una scelta che, solo poco prima dell’invasione russa dell’Ucraina, appariva molto distante dalla maggioranza dei cittadini finlandesi, ancora legatissimi all’esperienza del secondo Novecento e dei primi decenni dei Duemila.

Proprio per questa assenza di appartenenza alla Nato ma per un progressivo alineamento con l’Europa, l’ipotesi di uno scenario finlandese per l’Ucraina era stato paventato soprattutto nella primissima fase del conflitto. Va detto che già negli anni dell’occupazione della Crimea e dell’inizio della guerra del Donbass era sorta una certa dottrina che riteneva plausibile sviluppare questo concetto in chiave ucraina. Uno scenario che, come ricordato dal professor Luciano Bozzo su Il Foglio, aveva tra i suoi interpreti maggiori Zbigniew Brzezinski, consigliere alla sicurezza nazionale durante la presidenza Carter e Henry Kissinger, ex segretario di Stato Usa. Entrambi ritenevano auspicabile che l’Ucraina avrebbe potuto rinunciare all’appartenenza alla Nato, avviare un percorso di adesione nell’Unione europea e in questo modo trasformarsi in una sorta di garanzia vivente per gli interessi europei e russi, con una progressiva virata di Kiev verso l’Occidente.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in visita al fronte di Bakhmut nel dicembre del 2022 Foto: ABACAPRESS.COM

I limiti del parallelo Finlandia-Ucraina

Questo paragone tra le due realtà appare però molto difficile per diverse ragioni. Se è vero, infatti, che gli ucraini, al pari dei finlandesi nelle due guerre, hanno mostrato grandi capacità di resistenza alle forze di Mosca, altri elementi essenziali per comprendere l’esperienza finlandese rischiano di essere impossibili da applicare alla realtà ucraina. Innanzitutto l’invasione russa è andata di pari passo con una netta presa di posizione da parte di Vladimir Putin sulla sostanziale inesistenza dell’Ucraina come Paese. Per il capo del Cremlino, l’Ucraina è di fatto una regione storica dell’impero russo e gli ucraini rappresentano un unico popolo insieme a quello russo.

Lo dimostra anche l’ultima foto lasciata dalle autorità di Mosca che vedono il presidente mostrare una carta geografica francese dell’era moderna in cui non appare l’Ucraina, a voler legittimare una sorta di “deviazione storica”. Questa forma di annichilimento delle prospettive ucraine non è mai esistita nel rapporto con la Finlandia, considerata un interlocutore sin dai tempi della stessa occupazione zarista, in cui Helsinki ottenne una sempre maggiore autonomia.

In secondo luogo, l’importanza di Kiev per Mosca non è paragonabile, a livello culturale e politico, a quella di Helsinki. L’Ucraina rappresenta un elemento centrale nella storia e nella narrativa russa, mentre la Finlandia è un Paese strategicamente importante ma culturalmente ed etnicamente del tutto distinto dalla Russia. Inoltre, un altro punto a sfavore del paragone delle due realtà e soprattutto della possibile declinazione ucraina della “finlandizzazione” è il modo in cui è stata condotta la guerra e il successivo armistizio. I finlandesi hanno perso, e hanno voluto firmare l’armistizio per non trovarsi nella condizione di dover combattere contemporaneamente e da soli contro sovietici e nazisti. Kiev al contrario, non solo è ancora in guerra, ma sembra del tutto contraria a ogni ipotesi di accordo con Mosca, al punto da aver vietato di interloquire con Putin o farci degli accordi. La guerra è ancora troppo viva e troppo difficile da definire nei suoi contorni per suggerire uno scenario di pace sul modello russo-finalndese.

Mappa di Alberto Bellotto

Il rischio di una guerra perpetua

Un altro elemento su cui vale poi la pena riflettere è che il futuro dell’Ucraina appare difficilmente paragonabile alla Finlandia del dopoguerra. Helsinki ha avuto anni di convivenza con l’Urss e presidenti ben intenzionati ad avere un rapporto di amicizia con Mosca senza mai perdere di vista la proiezione verso occidente. Kiev, dal canto suo, si è forgiata in un conflitto con la Russia che non sembra possa sfociare in un futuro rapporti di mutua amicizia e di interessi comuni, ma al contrario appare plausibile una continua e progressiva rotta verso l’ovest da parte delle autorità.

Volodymyr Zelensky ha già fatto intendere di volere che il suo Paese sia ammesso nell’Unione europea e nell’Alleanza Atlantica. E dal momento che il blocco euro-americano ha rifiutato le “garanzie di sicurezza” proposte dal governo russo e che prevedevano, prima del conflitto, un’Ucraina “cuscinetto” tra est e ovest, appare improbabile che accettino queste condizioni dopo un conflitto logorante e dopo il trauma dell’invasione dei carri armati russi.

Date le condizioni strategiche interne al Paese, è certamente molto difficile che l’Ucraina possa entrare nella Nato, dal momento che per farlo, occorrono condizioni di sicurezza e di pace che con un Paese in parte occupato risultano impossibile da soddisfare. Questa mancata appartenenza alla Nato potrebbe far paragonare la Finlandia postbellica all’Ucraina di un eventuale dopoguerra. Tuttavia, la differenza probabilmente decisiva è che la scelta di Kiev non apparirebbe dello stesso valore di quella di Helsinki, perché quest’ultima ha scelto una neutralità derivante anche dal legame con i Paesi limitrofi (in particolare Svezia) e per non volere rimanere ancorati all’alleanza con la Germania.

Ben diverso il caso dell’Ucraina, che a ovest ha Paesi profondamente convinti della necessità dell’Alleanza atlantica (a partire dalla Polonia) e che non sembra affatto interessante a spezzare i legami con Washington e con gli altri partner per preferire un rapporto di equilibrio con Mosca. Inoltre, dal momento che dopo il conflitto l’Ucraina sarà un Paese bene armato, perfettamente integrato ai partner atlantici, addestrato e equipaggiato dall’Occidente, è pressoché impossibile ritenere che qualsiasi futuro governo di Kiev scambi la pace con il disarmo: condizione che invece sarebbe probabilmente richiesta dalla Russia in caos di armistizio, come già dimostrato nell’elenco degli obiettivi della “operazione militare speciale”.

A questo proposito, anzi, va considerato che proprio Kissinger, fautore della “finlandizzazione” dell’Ucraina negli anni della sola guerra del Donbass, oggi a The Economist abbia perorato la causa di Kiev nella Nato proprio per rassicurare Putin e gli alleati che l’Ucraina non avrebbe agito di sua autonoma iniziativa con forze armate potenti e con rivendicazioni territoriali mai sopite. Segno dei tempi che cambiano, ma anche dimostrazione di come il modello finlandese oggi appaia molto distante dalla sua nuova realizzazione orientale.