È decollato senza preavviso, e con una certa premura, l’aereo da trasporto tattico che portava a bordo alcuni dei nostri soldati dislocati in Iraq, dove le basi militari sono entrate nel mirino dei missili balistici a medio raggio lanciati dai Pasdaran. La meta era il Kuwait, paese sicuro dove in queste ore si ammassano le truppe americane in attesa degli ordini del commander in chief Donald Trump. Intanto a Erbil, le sirene anti aeree hanno suonato, e sono tutti corsi nei bunker sotterranei: sono stati i missili “Patriot” a scongiurare la prima minaccia.
Prima in elicottero fino a Taji, sotto una pioggia di contromisure “flare” che illuminano il cielo ma scongiurano la minaccia di razzi e missili a ricerca termica e guida infrarossi. Poi di corsa su un C-17 Gloabmaster III, un bestione spinto da quattro grossi reattori che è atterrato poco dopo sulla pista di Al Jahrah, in Kuwait. In Italia erano le quattro del mattino, e in pochi erano svegli per sapere che l’inevitabile era accaduto: Teheran aveva lanciato l’operazione “Soleimani Martire”. Era una missione di cui nessuno doveva sapere “in anticipo”, secondo le prime fonti “informate” della stampa, onde evitare imprevisti. Così, alle 9 ora locale, i nostri specialisti dei carabinieri potenzialmente esposti al fuoco dei mortai che in questi giorni ha scosso la “zona verde” di Baghdad – dove si trovano i compound che ospitano il personale militare straniero – sono al sicuro.
Già nelle prime ore della notte, il nostro nuovo ministro della Difesa Lorenzo Guerini aveva parlato al telefono con il segretario della Difesa Mark Esper, che aveva assicurato il “passaggio” dei nostri soldati su un trasporto operato dall’Us Air Force e protetto dalle contromisure necessarie. A bordo del velivolo c’erano anche altri soldati di diverse nazionalità: tutti impegnati come i nostri carabinieri nella missione Nato; e tutti alloggiati nel compound di Union3 a Badghdad. Gli altri, seguiranno nelle ore dopo, su altri voli protetti. Questa “esfiltrazione” di sicurezza è una decisione presa dalla Nato in concerto con lo Stato maggiore della Difesa italiana; che da Palazzo Esercito ha ordinato subito il via all’operazione per dislocare in un luogo più sicuro gli specialisti dell’Arma e dell’Esercito che potrebbero diventare oggetto di attentati nella capitale irachena.
Intanto, i loro commilitoni dislocati a Erbil, capitale della regione del Kurdistan iracheno, si erano rifugiati nei bunker di Camp Singara: la seconda base entrata nel mirino dei missili balistici lanciati dai pasdaran iraniani. “L’allarme è scattato all’improvviso e in quel momento era chiaro che non c’era tempo da perdere. Era arrivato il momento di mettersi al riparo, perché il rischio che un missile cascasse nella nostra base era concreto”, ha riportato una militare italiano a La Stampa. “Abbiamo battuto i denti, ma non solo per la paura. Dentro il bunker si gelava”. Nessuna perdita tra i 900 soldati italiani che alloggiano nei compound a poca distanza dall’aeroporto internazionale – sembra che l’Iran avesse avvertito per tempo, come a dire: “Non ce l’abbiamo con voi”. In ogni caso il sistema americano “Patriot”, elemento basilare della bolla di difesa anti-aerea di ogni base in Medio Oriente, è entrato in azione, salvando delle vite, anche tra i nostri: perché la base “americana” dista solo 500 metri dalla base che ospita i militari italiani. E quando si lanciano 15/20 missili a medio raggio da una distanza di oltre 1000 chilometri, qualcosa potrebbe sempre andare storto.
Sono momenti di tensione e di grande complessità quelli vissuti in queste ore; il governo italiano ha ordinato, in accordo con la coalizione internazionale, di cessare tutte le attività di routine in Iraq, in attesa dell’assestamento della situazione che si prevedeva imminente, e che ora attende la contro risposta di Trump. Tuttavia la strategia di Roma è quella di non “abbandonare” il campo. Il mistero della Difesa a tenuto a precisare che si tratta solo ed esclusivamente di uno spostamento di truppe, legato strettamente a ragioni di sicurezza che riguardano il nostro personale impegnato all’estero. dal ministero della Difesa, è motivato da strette ragioni di sicurezza. Nel Training coordination center di Erbil, si continua a lavorare. Nonostante la base americana vicina all’aeroporto sia stata colpita. Intanto il ministro Guerini tiene una linea telefonica aperta con il segretario Esper, per ottenere un maggiore coordinamento diplomatico e militare con gli alleati, ma anche per sapere “cosa” potrebbe accadere nelle prossime ore. L’interesse italiano, a differenza di quello statunitense, è anche quello di proteggere i progressi diplomatici raggiunti con Teheran, per cui l’Italia rimane un partner commerciale di rilievo, prima che nel citato impegno nella lotta al terrorismo. “Disperderebbe i risultati ottenuti negli ultimi anni nel contrasto al terrorismo”, afferma Guerini. Contestualmente il Pentagono ha ringraziamento l’Italia via twitter per il suo impegno nel non abbandonare le posizioni: “Grazie per la determinazione, l’impegno a mantenere le forze a Baghdad e per la stabilità irachena”. Perché Erbil non si lascia, e chi c’è dice di essere pronto a portare avanti la missione di giorno, e tornare nei bunker di notte.
Adesso alcuni dei nostri sono in Kuwait, nella base internazionale di Ali Al Salem, quasi 40 chilometri dal confine. Pronti a rientrare in Iraq se le cose, come auspichiamo, si fermeranno qui: un’eliminazione di rilievo da parte degli Stati Uniti, e una risposta a tono, ma senza vittime e danni eccessivi, che gli ayatollah possono vendere al loro popolo come una “vendetta”, o forse solo un avvertimento che tende a dire “guardate di cosa siamo capaci”.