Quella che si sta combattendo in Siria, fra Iran e Israele, è anche (e soprattutto) una guerra psicologica. Una guerra fatta di minacce, di aggressioni, ma soprattutto di attacchi chirurgici da parte israeliana che non ha neanche bisogno di essere devastante. Purché se ne parli, purché si dica che Israele sia pronto ad attaccare. Oderint dum metuant, letteralmente “odino, purché temano”.
Come scrive il Jerusalem Post, le ultime immagini pubblicate da ImageSat International – sito che si occupa di elaborazioni di immagini satellitare da vettori commerciali – sono molto interessanti. Mostrano i danni causati dagli attacchi aerei israeliani in Siria del 10 maggio. Ebbene, queste foto non lasciano affatto credere che gli attacchi siano stati devastanti. Anzi, semmai l’esatto opposto. Basti pensare all’aeroporto internazionale di Damasco e alla cosiddetta “Glasshouse“, la “Serra”.
Tuttavia, c’è un dato da non sottovalutare: il gigantesco edificio dell’aeroporto internazionale di Damasco è stato evacuato il giorno del bombardamento. Dall’analisi di queste immagini si può quindi capire quale sia uno degli scopi delle operazioni israeliane in Siria. Non soltanto colpire, ma creare confusione, costringere le forze avversarie a dove ripiegare altrove. Il tutto nell’ombra di attacchi mai dichiarati, furtivi, a volte del tutto anonimi e improvvisi.
Da questo punto di vista, gli attacchi di Israele sono un continuo susseguirsi di annunci, ripiegate delle forze sciite e bombardamenti dell’aviazione israeliana. Stessa cosa è avvenuta con i i raid delle forze occidentali. Altrimenti, minacciare raid per giorni non avrebbe senso: se è una guerra, si colpisce senza dare il preavviso per evitare di fare danni. C’è un accordo, probabilmente. Ma c’è anche un motivo pratico: creare scompiglio.
In questi giorni, spiegano gli analisti del Jp, l’apparato iraniano in Siria ha un nuovo problema. Dopo i raid israeliani in Siria del 10 maggio, i funzionari iraniani si domandano cos’altro possa accadere. Non è panico, ma continua allerta. E questa tensione latente, permette a Tel Aviv di giocare sempre d’anticipo rispetto a Teheran. Anche perché le forze sciite cominciano a contare i morti, e quel sangue pesa su un governo che li considera martiri ma che adesso si ritrova a dover combattere una vera e propria guerra lontano da casa.
L’attacco alla Glasshouse come metodo di lotta
Nell’agosto del 2016, il quotidiano britannico Daily Mail pubblicò un’inchiesta sul ruolo di questo edificio nella strategia iraniana. Un’inchiesta nata con il sostegno dell’ormai noto Consiglio nazionale della Resistenza iraniana, gruppo che, fino al 2012, era sulla lista nera del terrorismo del Dipartimento di Stato americano. Mentre i suoi partecipanti, in larga parte arrivati da Mojahedin del Popolo Iraniano o Mojahedin-e Khalq (Mek) sono considerati in Iran come terroristi. Segno che le sue attività sono tutt’altro che limpide.
Secondo quell’inchiesta, la Glasshouse di Damasco era il quartier generale iraniano in Siria. Al suo interno, si organizzavano operazioni di intelligence e controspionaggio e si diceva contenesse bauli pieni di soldi inviati da Teheran. Gli ultimi due piani erano occupati interamente dai servizi segreti dell’Iran mentre in un’ala dell’edificio vi era una sorta di clinica per alti ufficiali di Teheran o delle forze ad essa collegata.
Le informazioni, secondo quanto sostenuto dal Daily Mail, provenivano da vertici dei Guardiani della Rivoluzione e esponenti militari in rotta con il governo Rohani.
Ora, osservando questi articoli e intrecciando i dati delle inchieste, la Glasshouse dell’aeroporto di Damasco apparirebbe come un obiettivo primario dei missili israeliani. Un edificio isolato, grande e di vetro: perfetto per essere colpito. E invece, Israele non lo bombarda. Quando aerei e missili israeliani hanno deciso di bombardare per l’ultimo attacco, quello tra il 9 e il 10 maggio, hanno colpito un magazzino lì vicino. Un errore di calcolo? Difficile.
Perché in fondo, lo scopo Israele già lo aveva raggiunto. Adesso quell’edificio è inutilizzabile. L’Iran ha dovuto spostare il suo quartier generale ed evacuare le strutture più importanti. Israele ha vinto una battaglia senza combatterla. Sun Tzu ne sarebbe contento.
Ma c’è un contraltare a questa guerra psicologica. L’Iran non ha ancora colpito. Ha minacciato una risposta, ma non l’ha fatto. E a Tel Aviv temono che questa vendetta, prima o poi arrivi. Israele in questo può peccare di arroganza. A Teheran lo sanno e attendono il primo passo falso.