Arriva l’autunno e si avvicina sempre di più l’inverno e per la Russia si accumulano le problematiche dopo il contrattacco delle armate ucraine a duecento giorni dall’invasione del Paese limitrofo da parte di Mosca.
La controffensiva ucraina e i problemi della Russia
L’esplosione della controffensiva ucraina nell’Est della nazione apre scenari complessi e questa volta Mosca si trova dalla parte dell’attaccante costretta a rinculare e non del difensore agguerrito mentre l’autunno e l’inverno, che nelle distese sarmatiche spesso inizia a farsi sentire dalla fine di ottobre, si approssima gradualmente. Nel 1812 contro Napoleone e nel 1941 contro la Germania nazista il “Generale Inverno” giocò a favore della Russia cristallizzando i frontio mettendo in difficoltà gli invasori.
Oggi l’obiettivo della Russia è inchiodare la controffensiva ucraina e ottenere un successo importante prima che fango e ghiaccio blocchino le prospettive di avanzata. Vaste programme, direbbe il generale De Gaulle: demotivazione, scarsa freschezza degli uomini e armamenti di valore degli ucraini congiurano a bloccare la Russia, che con la stagione fredda potrebbe essere impossibilitata a riprendere l’inerzia sul campo. E lo scenario che si preannuncia nella Federazione non sarà certamente dei migliori.
I fronti di crisi per Mosca
Non lo è certamente per Vladimir Putin e la sua cerchia di potere, che mentre la finestra per contrattaccare alla puntata offensiva dell’esercito di Kiev nell’Ucraina orientale va sempre più stringendosi e l’avvicinamento della stagione delle piogge e dei pantani lascia presagire uno stallo militare vede restringersi lo spazio per una mossa di ampio valore strategico prima di fine 2022.
Non lo è nemmeno per la diplomazia di un Paese che si trova in un limbo pericoloso, messo all’angolo dall’Europa e dagli Stati Uniti come partner e trattato dagli stessi come un rivale economico, intento con l’Occidente a combattere una guerra di nervi e di sanzioni mutualmente dannosa. Una guerra in cui l’arma finale che la Russia può mettere in campo, il blocco alle forniture energetiche all’Europa, risulterebbe alla luce dei dati più recenti tutt’altro che favorevole all’economia del Paese, già costretta a bruciare in estate il suo surplus commerciale.
E in generale difficilmente potrà esserlo anche per la popolazione se i danni al sistema nazionale si protrarranno come prevedono, per effetto delle sanzioni, i dati del ministero delle Finanze e del ministero dello Sviluppo Economico sulle conseguenze delle sanzioni.
Un’economia in affanno
L’Agenzia statistica russa ha pubblicato i dati per gennaio-giugno 2022, i più recenti disponibili, facendo notare che la produzione industriale a giugno 2022 è calata dell’1,8% rispetto a giugno dello scorso anno, mentre il fatturato dei trasporti è diminuito del 5,8%. Il volume del commercio al dettaglio è diminuito di quasi il 10%. L’inflazione era del 15,9%. I redditi reali della popolazione sono diminuiti dello 0,8% nella prima metà del 2022 rispetto alla prima metà del 2021. Moltissimi indicatori sono in calo, dal tasso di fiducia delle imprese nel settore manifatturiero a un indice compilato dalla Banca di Russia. Un sondaggio dei responsabili degli acquisti condotto da S&P Global ha indicato che i produttori hanno registrato un crollo di sei mesi della produzione che si è concluso solo ad agosto.
“Il ministero dello Sviluppo Economico russo”, nota Gis Report “prevede che nel 2022 e nel 2023 l’economia del paese si ridurrà rispettivamente del 4,2% e del 2,7%, e solo nel 2024 riprenderà la crescita (del 3,7%)”, una stima più ottimistica di quelle della Banca centrale russa di Elvira Nabiullina. Il Fondo Monetario Internazionale “ha pubblicato una previsione simile a luglio, prevedendo un calo del 6% invece dell’8,5% come previsto ad aprile. Allo stesso tempo, le previsioni per il 2023 sono peggiorate: se ad aprile il Fmi ha parlato di una diminuzione del 2,3 per cento, ora è del 3,5 per cento”.
Mobilitazione o economia di guerra?
Lo scenario per il Paese governato da Vladimir Putin si complica ulteriormente se si pensa al fatto che da più parti i falchi interventisti fanno pressione sul Cremlino per ordinare la mobilitazione generale delle truppe e ufficializzare quella dichiarazione di guerra all’Ucraina oggi esistente solo di fatto a causa della retorica, ormai stantita, dell’operazione militare speciale.
Tale prospettiva è da ritenersi remota e problematica per l’intera architettura del consenso di Putin, che in primo luogo teme che la retorica anti-guerra si diffonda nelle città principali, Mosca e San Pietroburgo soprattutto, i cui cittadini sono stati in larga parte risparmiati, fino ad oggi, dal coinvolgimento della complessa campagna nell’Est dell’Ucraina. La Russia potrebbe piuttosto cercare una soluzione alternativa come una mobilitazione crescente dell’apparato industriale in funzione bellica da unirsi al rifiuto di mobilitare generalmente la popolazione nazionale. Il ritorno delle truppe ucraine ai confini aprirebbe, in quest’ottica, alla prospettiva di attacchi di rappresaglia capaci di far crollare il morale della popolazione effettuati oltre la frontiera. Manovre di questo tipo sono da attendersi in caso di mobilitazione totale.
Più possibile che si arrivi a uno stato crescente di economia di guerra su cui la Russia può insistere sfruttando la sua autosufficienza su energia e cibo capace di garantire sicurezza alimentare e economica alla popolazione in cambio di una crescente svolta industriale verso i prodotti utili alla difesa e alle forze armate. In molti settori la riconversione industriale è già realtà. La segretezza che circonda la produzione di equipaggiamento militare non ha completamente oscurato l’impatto che sta iniziando ad avere sulla produzione. Bloomberg scrive che “la produzione di prodotti finiti in metallo” – una linea statistica che oltre a articoli come posate include armi, bombe e vari tipi di munizioni – è aumentata di quasi il 30% a luglio rispetto a un anno prima dopo i forti cali dei mesi precedenti”. E “Janis Kluge, analista dell’economia russa presso l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza di Berlino, stima che la spesa per la difesa nei primi sette mesi dell’anno sia stata di circa 20 miliardi di dollari superiore rispetto allo stesso periodo del 2021″. Tutto questo genera Pil, ma non sicurezza. E la mobilitazione dell’industria in virtù dell’economia di guerrasottrarrebbe comunque alla popolazione quote di produzioni e importazioni di beni di consumo a cui Mosca non ha mai fatto rinunciare i suoi cittadini.
Lotte di potere
Le forti disuguaglianze socio-economiche del Paese e la natura aggressiva delle sanzioni occidentali hanno fatto pensare molti analisti al fatto che per l’aggressione di Usa e Ue alla sua economia la Russia sarebbe collassata e anche sull’Atlantic Council di recente si prospettava uno scenario per il Paese fatto di “calo dei sussidi finanziari federali, deterioramento delle infrastrutture locali, disastri ambientali, collasso dei servizi sanitari, corruzione ufficiale dilagante e alienazione pubblica dal processo decisionale centrale”. Tutto questo ad oggi non è accaduto, ma non è improbabile che una prolungata guerra e la recessione, specie se segnate da altre fasi complesse come quella attuale, possano logorare la forza di Putin.
Mai quanto in questi giorni è tornata di moda la retorica mediatica, analitica e speculativa sulla fine dell’era Putin accelerata da una possibile disfatta nella controffensiva ucraina. Di “letteratura sulla fine di Putin” ha parlato l’Asia Times, mentre negli Usa il più rilevante esempio in questione è stato tra questi è stato un saggio pubblicato sull’Atlantic dalla storica Anne Applebaum, avente un titolo emblematico, “È tempo di prepararsi per una vittoria ucraina“, in cui la celebre intellettuale repubblicana presagisce un collasso del regime sulla scia del tradimento dell’élite russa al progetto di Putin. Applebaum nota: “È inconcepibile che [Putin] possa continuare a governare se il fulcro della sua pretesa di legittimità – la sua promessa di rimettere insieme l’Unione Sovietica – si rivela non solo impossibile ma ridicolo”.
Ad oggi tutte le previsioni in materia non ci hanno preso: in Occidente la “fine di Putin” è stata narrata come possibile frutto di una sollevazione di massa del popolo russo con l’obiettivo di rovesciare un leader avente consensi tra il 75 e l’80% in patria; è stata ipotizzata come operabile attraverso un colpo di Stato di palazzo da parte di addetti ai lavori del Cremlino, “élite” senza nome o militari di vario rango; è stata spesso associata anche a una papabile rivolta nei servizi segreti.
Speculare su un fatto del genere è ad oggi capzioso, come più volte su queste colonne abbiamo ricordato. Ma – e va sottolineato – dall’inizio della guerra nel febbraio scorso il cuore dell’impero è sempre più conteso e una stagnazione o nuove sconfitte sul fronte ucraino porterebbero a un’inevitabile gara di tiro alla fune. Da un lato, i Medvedev, i Kadyrov e gli altri “falchi” interventisti e guerrafondai; dall’altra, l’élite liberale di Nabiullina, Novak, Sechin; in mezzo, i vertici dei servizi più contestati, come l‘Svr, militari pragmatici e diplomatici come Sergej Lavrov potrebbero guidare una cordata o l’altra a influenzare decisivamente il Cremlino sul futuro della guerra. Dunque a scegliere tra la delega esclusiva all’amministratore delegato della rete di potere russa nominato uomo solo al comando, con dubbia efficacia, nella guerra d’Ucraina, o a un graduale commissariamento di Putin capace, in prospettiva, di aprire un discorso sui rapporti di forza per la successione. Partita, questa, che si svilupperà anche in base a come Putin saprà gestire il lungo inverno in cui, per una rara volta, la Russia entrerà con più incognite che obiettivi concreti.