Guerra /

Dopo mesi di minacce e tentennamenti ieri sera è arrivata la notizia ufficiale: gli Stati Uniti sono usciti dal trattato Open Skies. A darne la notizia è stato lo stesso Mike Pompeo, segretario di Stato americano. Il trattato nasce il 24 marzo del 1992, ad Helsinki, quando gli Usa siglano, insieme ai rappresentanti di altri 23 Stati, l’accordo che prevede il sorvolo reciproco dei rispettivi Stati per ridurre il rischio di un conflitto fornendo ai firmatari la possibilità di raccogliere informazioni sulle attività militari. Diventato operativo il 2 gennaio del 2002 dopo la sua ratificazione da parte di Russia e Bielorussia ha fatto contare sino ad oggi innumerevoli voli di ricognizione.

Open Skies ha cominciato ad essere messo in discussione da parte dell’amministrazione Usa l’anno scorso, quando il presidente Donald Trump, ad agosto, ha deciso di sospendere i fondi per le missioni di ricognizione andando a colpire la capacità della Russia di effettuarle nei cieli degli Stati Uniti. Questo a seguito di un precedente divieto di Mosca ai velivoli Usa di sorvolare l’oblast di Kaliningrad così come la Cecenia e l’Ossezia del Sud stabilendo contestualmente un limite di altitudine di sorvolo sulla capitale russa: tutte misure prese in violazione del trattato.

Questa primi crisi sembrava essere rapidamente rientrata ma a ottobre la Casa Bianca ha reiterato la volontà di abbandonare l’accordo internazionale, sebbene nei mesi successivi i voli siano continuati senza particolari problemi.

Nella storia del Trattato non sono poi mancate discussioni tra le parti in causa che hanno riguardato, ad esempio, la risoluzione dei sensori oppure anche il rischio che i dati raccolti – che vengono resi noti obbligatoriamente anche al Paese che ha subito il sorvolo – possano essere ceduti a terze parti (come Stati canaglia o organizzazioni ritenute terroristiche) determinando un pericolo per la sicurezza. In realtà proprio la risoluzione dei sensori, non molto accurata, risulta essere la migliore assicurazione per escludere questa ipotesi, senza considerare che, proprio per la trasparenza di certe nazioni come gli Stati Uniti, informazioni sulla tipologia, dimensioni e localizzazione di certe installazioni sensibili è già di pubblico dominio.

Le reazioni di Mosca non si sono fatte attendere e sembrano non voler alzare i toni per il momento: “la Russia non ha ricevuto alcuna notifica dagli Stati Uniti sull’uscita dal Trattato”, ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova affermando anche che la Russia ha rivendicazioni specifiche e di lunga durata contro gli Stati Uniti per l’attuazione del trattato.

Leonid Slutsky, presidente della commissione per gli affari internazionali della Duma di Stato, ha osservato che Mosca ha già un piano di risposta, e che sarà guidata dagli interessi della sicurezza nazionale.

Vladimir Ermakov, direttore del dipartimento per la non proliferazione e il controllo degli armamenti del ministero degli Esteri della Federazione Russa, ha definito i tentativi di Washington di presentare il ritiro dal trattato come una reazione alle violazioni di Mosca che non trova fondamento.

Washington, più che per i contrasti con la Russia, ha stracciato anche questo accordo ereditato dai tempi della Guerra fredda per disfarsi di un’altra limitazione che non prevede la partecipazione della Cina. La strada era già segnata dall’uscita dal trattato Inf sui missili balistici a raggio intermedio che abbiamo avuto modo di trattare ampiamente nei mesi precedenti, ma a ben vedere i prodromi di questa politica si possono già intuire nell’uscita dal trattato Abm avvenuta nel 2002.

La totalità dei trattati sul disarmo o sul controllo degli armamenti, come anche il Cfe sulle forze convenzionali in Europa o lo Start sulle forze nucleari strategiche, è eredità della Guerra Fredda e come tale è riflesso di un mondo che non esiste più. Il duopolio tra Mosca e Washington non esiste più e nella partita a scacchi globale si è inserita prepotentemente Pechino, che soprattutto negli ultimi 15 anni ha dimostrato di aver fatto passi da gigante nella qualità e nel numero degli armamenti, non solo convenzionali.

Risulta evidente quindi che dei trattati fortemente limitanti, come erano appunto l’Abm o l’Inf, siano diventati improvvisamente obsoleti e anche rischiosi a fronte del nascere di una potenza aggressiva e sempre meglio armata come la Cina che non ne fa parte, e che soprattutto non intende farne parte: le possibilità di “salvare” un trattato come l’Inf ventilando l’ipotesi dell’ingresso cinese sono sempre state accolte freddamente da Pechino, che anzi ha spinto affinché fosse conservato lo status quo per ovvi vantaggi di carattere strategico.

Open Skies, insieme al Cfe che però riguarda un teatro molto lontano dal fronte caldo orientale e insieme al trattato Start è l’ultima eredità della Guerra Fredda ed era quindi già condannato a “morire” proprio a causa dell’assenza tra i suoi firmatari della Cina, e questa volontà, se non fosse stata già chiara dall’atteggiamento della Casa Bianca tenuto nei mesi scorsi, la si poteva evincere dalla riluttanza di Washington a rimodernare la sua flotta di velivoli da ricognizione espressamente nata per compiere i voli in forza del trattato: i tre Boeing Oc-135B del 55esimo Stormo di base a Offutt (Nebraska), i quali hanno dato non pochi problemi di affidabilità.

Sembra quindi che la decisione di Washington sia stata quasi concordata con Mosca, che dai voli Open Skies ha ormai solo da perderci da quando la totalità dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia ha cambiato fronte passando alla Nato ed ha tutto l’interesse a che il suo vicino e partner “forzato” – la Cina – venga imbrigliata da nuovi accordi internazionali sugli armamenti, e pertanto le lamentele russe potrebbero essere solo di facciata.

La cartina tornasole da questo punto di vista sarà il modo in cui Russia e Stati Uniti affronteranno la scadenza di un altro importantissimo trattato sul disarmo: lo Start che dovrà essere ridiscusso entro febbraio del 2021. Qui sul piatto c’è ben più della semplice riduzione delle forze nucleari strategiche, anche al netto dei nuovi sistemi ipersonici entrati in servizio che possiamo definirli come dei veri e propri game changer, ma si gioca una partita politica che misurerà il peso della diplomazia delle due vecchie superpotenze della Guerra fredda che dovranno affrontare e confrontarsi col “dossier cinese”, che non può più essere rimandato proprio a fronte dei progressi tecnologici raggiunti dal dragone nel campo degli armamenti atomici e missilistici.