Lo scorso 16 aprile cinque bombardieri B-52H dell’Usaf sono decollati dalla base Andersen di Guam, nelle isole Marianne, per ritornare definitivamente negli Stati Uniti, presso la Minot Afb in North Dakota, sede di appartenenza dello stormo. Esattamente tre giorni dopo la dimostrazione di forza data dal “elephant walk”, il sentiero degli elefanti, visto proprio sulla pista della base del Pacifico, i cinque Stratofortress hanno lasciato il presidio dopo 16 anni di ininterrotti dispiegamenti.
“I bombardieri strategici Usa continueranno a operare nella regione indo-pacifica, Guam inclusa, al momento e al tempo che riterremo opportuni” sono state le laconiche parole del portavoce dell’Us Strategic Command (Stratcom) che hanno segnato la fine di una lunghissima parentesi che ha visto la presenza senza soluzione di continuità di bombardieri B-52H, B-1B e B-2 in turni di sei mesi sull’isola dell’arcipelago delle Marianne.
Dal 2004, infatti, i bombardieri sono stati una presenza costante sull’isola del Pacifico Occidentale, rappresentando un fattore di deterrenza per la Cina e la Corea del Nord in grado di tranquillizzare gli alleati regionali degli Usa. Il dispiegamento di assetti di questo tipo, capaci in poche ore di colpire pesantemente obiettivi anche a notevole profondità nel territorio avversario, rappresenta ancora uno strumento efficacissimo di dissuasione per il nemico, e oltretutto, dipendendo strettamente dal fattore umano (il pilota e l’equipaggio), è uno strumento molto più flessibile rispetto a un missile da crociera o un missile intercontinentale.
La presenza costante dei bombardieri a Guam indicava quindi in modo esplicito e forte la volontà degli Stati Uniti di essere risolutamente coinvolti nella soluzione delle crisi e nella gestione della stabilità della regione. Il loro ritiro, senza che ne sia previsto l’avvicendamento, manda il messaggio opposto proprio in un periodo in cui tutto il settore del Pacifico Occidentale “ribolle”, con tutti i rischi che ne derivano: là dove viene fatto un passo indietro, c’è qualcun altro che fa un passo avanti, e quel qualcun altro, nella regione in questione, è la Cina.
Questa tendenza è ancora più evidente dalle sempre più frequenti uscite della Flotta Cinese al di fuori di quella che viene chiamata “Prima Catena di Isole” formata da Taiwan, le Filippine e la Malesia comprendente il Mar Cinese Meridionale, verso la “Seconda Catena di Isole” composta dal Giappone, Guam, Saipan e l’Indonesia.
Ma perché gli Stati Uniti, e in particolare l’Usaf, stanno “segnando il passo” nel Pacifico? La risposta, ancora una volta, riguarda i bilanci e nella fattispecie quelli che riguardano la componente aerea strategica, che dal periodo d’oro dello Strategic Air Command (Sac), che negli anni ’50 contava più di 2000 bombardieri (tra B-47 e i primi B-52), è andata gradualmente diminuendo: nel 1992, quando il Sac fu sciolto e reinquadrato nell’Air Combat Command come Stratcom, la forza dei bombardieri ammontava a 400 velivoli. Oggi sono 157 (B-52H, B-1B e B-2) con l’obiettivo di tagliarne altri 17 entro la fine del 2021.
La componente aerea strategica paga, per essere ancora più precisi, un doppio dazio: i programmi di rinnovamento della flotta di bombardieri sono quasi sempre naufragati nella passata decade sia per via dei tagli al bilancio della Difesa, sia per il quadro generale dei conflitti nei vari teatri del globo, diventati non più confronti tra entità statuali dotate di obiettivi strategici d’area, ma conflitti asimmetrici o a bassa intensità, dove il nemico non ha una divisa o degli assetti (industrie, porti, aeroporti, caserme) da colpire ma è diventato un guerrigliero che si nasconde tra le montagne o tra la popolazione civile di villaggi e cittadine.
La tattica del Pentagono, e quella della totalità delle nazioni occidentali, è virata decisamente, sin dal 2001, verso la counterinsurgency e pertanto, oltre ad avere bisogno di soldati sul campo, ha necessitato di cacciabombardieri e Ucav che sono molto più idonei per colpire obiettivi puntiformi spesso in aree densamente abitate rispetto a un bombardiere strategico.
Anche se velivoli come il B-52H, che è entrato in azione in Afghanistan soprattutto nel primo periodo per “spianare” (o cercare di farlo) le caverne di Tora Bora, o come il B-1B che ha partecipato a Inherent Resolve, l’operazione che dal 2014 combatte lo Stato Islamico in Iraq e Siria, hanno dimostrato la loro efficacia più dal punto di vista della guerra psicologica che da quello dell’eliminazione del nemico, la flotta dei bombardieri strategici è stata colpevolmente “dimenticata” dalla politica Usa, che solo recentemente, a fronte del rinascere delle minacce di carattere statuale, ha avviato un ambizioso programma per un nuovo bombardiere, il B-21 Raider, che però non vedrà la luce prima di un decennio.
Nonostante questo quando gli Stati Uniti devono fare “la voce grossa” la prima mossa che viene fatta è quella di ridispiegare un certo numero di bombardieri pesanti, che siano B-52H o B-1B, nelle varie basi che ha intorno al globo, come possono essere Guam nel Pacifico o Diego Garcia nell’Oceano Indiano, con una conseguente notevole usura di mezzi, che, come abbiamo visto, non vengono sostituiti generando così un circolo vizioso che vede sempre meno aerei per sempre più missioni.
L’esempio ficcante è dato proprio dal B-1B, il primo bombardiere al mondo con ala a geometria variabile e lo racconta il generale Larry Stutzriem a Defense News. La flotta di Lancer, questo il nome del velivolo, rappresenta più di un terzo di tutta la flotta di bombardieri dell’Usaf. All’indomani dell’11 settembre, ne erano stati ritirati 26 per liberare fondi che avrebbero dovuto essere destinati alla loro modernizzazione. Negli anni seguenti però, l’aeronautica Usa ha continuato a utilizzare intensamente i velivoli in una serie di dispiegamenti operativi pressoché ininterrotti, che ne ha aumentato l’usura. Coi tagli al bilancio non è stato possibile mantenere aperta la totalità della linea di volo dei B-1B e pertanto parecchi sono rimasti costretti a terra, generando così un ulteriore carico di lavoro per le macchine ancora in servizio: la scorsa estate la prontezza operativa dei B-1B era crollata al 10% proprio per questo motivo.
Il generale sostiene che la pandemia in atto, con le sue pesanti ripercussioni economiche, ha esacerbato ulteriormente questa situazione ed il ritiro definitivo dei bombardieri da Guam è solo la prima conseguenza di una tendenza che inciderà molto sulla capacità di deterrenza dell’Usaf. Non è forse un caso, quindi, che mercoledì 22 aprile proprio un B-1B decollato dalla base di Ellsworth in South Dakota, dopo un lunghissimo volo che gli ha fatto toccare l’Alaska e rasentare lo spazio aereo russo della penisola della Kamcatka, sia atterrato in Giappone, a Okinawa. Se eventi simili sono molto frequenti in Europa, è piuttosto raro che capitino nel Pacifico, soprattutto nel Pacifico nordoccidentale: una piccola dimostrazione di forza a beneficio degli alleati degli Usa ma soprattutto dei suoi avversari.
Se quindi gli Stati Uniti non vogliono perdere il primato e la loro capacità di deterrenza saranno giocoforza costretti a investire molto di più nel programma B-21, anche arrivando a raddoppiare il numero dei velivoli previsti, in considerazione del fatto che bombardieri come il B-52H, che comunque si prevede che resti in servizio sino al 2050, non sono già più in grado di penetrare con successo nelle difese aeree di tipo moderno, relegandoli così a compiti “di seconda linea” contro obiettivi strategici poco o nulla difesi – o per un second strike – e contro obiettivi tattici. Proprio da quest’ultimo punto di vista è altamente indicativa la recente decisione dell’Usaf di “radiare” le bombe nucleari a caduta libera B-61-7 e le B-83-1 dall’armamento a caduta libera del B-52H mantenendo la capacità di attacco atomico solo grazie ai missili da crociera aria-superficie Agm-86B.
In attesa però che il Raider entri in servizio, è necessario che si inverta la tendenza che costringe a terra la maggior parte della flotta dei bombardieri, ovvero che si spendano più soldi per la loro manutenzione o modernizzazione: una questione da risolvere in fretta ma che potrebbe scontrarsi proprio con l’attuale emergenza economica data dalla pandemia.