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Gli Stati Uniti hanno completato la riduzione delle truppe nel nordest della Siria raggiungendo il giusto livello di presenza per poter controllare adeguatamente i pozzi di petrolio presenti in quella regione. Il segretario della Difesa Mark Esper, in un’intervista a Reuters, ha detto che Washington manterrà circa 600 uomini nella zona, attualmente controllata dalle forze curde, per garantire che gli impianti di produzione di greggio non finiscano nella mani dell’Is.

Questo, secondo Esper, potrebbe segnare la fine di un periodo “turbolento e di incertezza” che ha caratterizzato la presenza militare Usa in Siria dopo la decisione, avvenuta lo scorso ottobre, di continuare sulla via del disimpegno delle truppe voluta personalmente dal presidente Trump.

A guardia del petrolio siriano

La presenza di truppe americane è andata lentamente diminuendo in Siria, passando dalle 1000 alle 600 attuali unità, ma il bilancio netto nell’area mediorientale non è variato di molto: i militari che hanno abbandonato il curdistan siriano sono stati trasferiti nel vicino Iraq proprio per tutelarsi da eventuali recrudescenza del sedicente Stato Islamico, ma soprattutto per non allentare la pressione sul rivale del momento: l’Iran.

I 600 soldati Usa sono ancora stanziati nella regione petrolifera di nordest, sotto controllo curdo e interessata anche parzialmente dall’operazione “Sorgente di pace” turca, ovvero l’invasione del nord della Siria per stabilire una fascia di sicurezza larga circa 30 chilometri per eliminare la minaccia terroristica determinata dalle milizie curde del Ypg.

Gli americani, quindi, lavorano ancora a stretto contatto con le Sdf (Syrian Democratic Forces) curde per “fare la guardia” ai pozzi di petrolio. I campi petroliferi siriani sono localizzati per la maggior parte ad est del fiume Eufrate, quasi a ridosso del confine con l’Iraq, e con la città di Deir el-Zor a fare da centro strategico, mentre la totalità dei pozzi a gas sono localizzati in una fascia centrale orientata sudovest/nordest grossomodo intorno alla città di Palmira.

Se la maggior parte dei soldati Usa è schierata nella zona petrolifera di nordest, incuneata tra Turchia e Iraq, una guarnigione costituita da circa 200 uomini sembra che sia dislocata anche nella parte meridionale, proprio nella zona di Deir el-Zor, snodo secondario della rete di oleodotti del Paese. L’oleodotto principale passa invece per la città di al-Hasakah, nel settore curdo, e collega i campi di produzione siriani alla città di Homs e da qui al terminal marittimo. Il secondo oleodotto più importante, che trasporta il greggio dall’Iraq al Mediterraneo, oltre a passare da Homs passa anche proprio per Palmira.

Gli Stati Uniti quindi hanno sotto controllo la quasi totalità delle produzione di greggio della Siria, che comunque possiede modeste riserve onshore: queste si aggirano intorno ai 2,5 milioni di barili con una produzione, pre conflitto, di 380mila barili/die crollata poi a 80mila a causa della mala gestione durante la guerra. Nonostante questo il presidente Usa ha provato a coinvolgere le compagnie petrolifere americane, come la Exxon, nello sfruttamento dei campi petroliferi siriani, ma le società hanno rifiutato in quanto ritengono che non sussistano le necessarie condizioni di sicurezza.

Trump caldeggia l’intervento degli alleati

Gli Stati Uniti, quindi, intendono mantenere un’aliquota di truppe pari a 600 unità, ma allo stesso tempo la Casa Bianca auspica che gli alleati forniscano il loro contributo.

“La coalizione è tornata a discutere molto. Abbiamo visto che qualche alleato sembra intenzionato a inviare truppe” sono state le parole dello stesso segretario Esper che però non si è sbilanciato ulteriormente non fornendo indicazione su quale alleato e in che numero. Quello che invece ha chiarito è che, nel caso che venissero inviate truppe da un altro partner, gli Stati Uniti diminuirebbero ulteriormente la loro presenza ma pur sempre mantenendo la “quota 600”.

Da questo punto di vista Washington ha provato più volte, in passato, a chiedere l’invio di truppe ai suoi alleati europei, in particolare alla Germania, che però ha rifiutato rispedendo al mittente l’invito e aumentando le divisioni che intercorrono tra la Casa Bianca e il Bundestag. La Germania recentemente è infatti entrata nel mirino di Trump: oltre ad essere stata colpita dai dazi sull’acciaio e alluminio, a Berlino viene rinfacciato il fatto di non contribuire a sufficienza alle spese per la difesa europea in ambito Nato e soprattutto di indirizzarle verso sistemi d’arma non made in Usa. Un vero e proprio affronto per l’America First del presidente Usa.

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