Matteo Maria Zuppi è stato ricevuto con grande rispetto e formalità dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo viaggio a Kiev di ascolto che ha inaugurato la missione diplomatica dell’inviato di Papa Francesco il 6 giugno scorso. La visita del presidente della Conferenza episcopale italiana in Ucraina è stata però accompagnata da non pochi mugugni nella politica e nella società civile ucraina. Emblematiche le parole dell’ex presidente Petro Poroshenko, che ha chiuso la porta alla mediazione del Papa: “abbiamo mediatori migliori di lui”, ha detto al Corriere della Sera, “i soldati delle Forze Armate ucraine”.

Le parole di Poroshenko hanno annacquato la portata della mossa di Zuppi e segnalano i problemi strutturali che Kiev ha con la gestione della mediazione. Non è la prima volta che da settori del potere di Kiev si alzano le barricate contro chi prova a aprire uno spiraglio negoziale. L’impressione che spesso si respira è quella di un timore politico degli esponenti del potere ucraino nei confronti di qualsiasi iniziativa possa mettere in dubbio la capacità di resistenza del suo esercito. Come se difesa contro l’attacco russo e ricerca di spiragli diplomatici non potessero coesistere.

Non è la prima volta e lo stesso Zelensky è stato più volte artefice di queste dinamiche. Il caso più recente è quello del recente G7 di Hiroshima, dove il presidente ucraino non ha incontrato l’omologo brasiliano Lula, uno dei leader per la cui presenza si era catapultato fino in Giappone con il passaggio di mezzo alla Lega Araba a Gedda. Secondo la Folha de Sao Paulo Lula ha incassato e accettato due richieste di spostamento del meeting prima che Zelensky mancasse ogni incontro. Un fatto che ha contrariato Lula, il quale si era offerto di ascoltare sia Zelensky che Vladimir Putin senza prendere posizione decisiva sulla guerra.

Il Brasile non ha certamente sostenuto Mosca, votandole sempre contro alle Nazioni Unite e ricordando che Putin nel Paese rischia l’arresto, ma sulla guerra non ha rotto definitivamente con un Paese con cui la sintonia è rimasta. All’Ucraina Lula, che prima di essere rieletto ricordava che nella guerra c’erano colpe sia russe che della Nato, ha detto che Kiev “non può avere tutto” dalla guerra, un’attestazione di realismo che l’Ucraina comprensibilmente allo stato attuale delle cose non può accettare ma su cui è comprensibile si inizi a pensare a un discorso politico.

Proprio la grande politica e le decisioni internazionali decisive alla possibile, futura de-escalation sono oggi lontane dai pensieri dell’Ucraina che ha avviato una controffensiva i cui veri effetti sono ancora ben lungi dal materializzarsi. E che dunque porta a respingere ogni piano strategico che guardi al dopoguerra. Compreso quello messo in campo dalla Cina, che volutamente evitava di entrare nello stretto specifico questioni che contrappongono i belligeranti, per non ricevere un “no” secco.

L’Ucraina ha, chiaramente, tutta la legittima possibilità di rispondere sul campo all’offensiva russa e immaginare che lo scenario finale sia quello di una vittoria totale contro le forze che l’hanno invasa il 24 febbraio. Così come è comprensibile che un’apertura netta alle trattative sia subordinata a un esito chiaro sul campo. Ma Zelensky e i suoi sembrano essere molto lontani dal comprendere cosa potrebbe succedere se tale scenario non si realizzasse. In altre parole, dove andrà l’Ucraina se uno stallo militare prolungato mettesse a nudo l’impossibilità delle due parti di conquistare un successo definitivo? Molti importanti generali occidentali che non hanno avuto remore nel sostenere l’appoggio all’Ucraina, dal capo di Stato Maggiore Usa Mark Milley all’ex direttore della Cia David Petraeus, hanno indicato nel negoziato la via maestra per uscire dalla guerra.

Il fatto può certamente non piacere, ma si impone la necessità di considerare, in futuro, una via alla Realpolitik. E pensare sia al modo per uscire dalla guerra sia alle strategie per pensare il dopo-guerra. Che riguardano da vicino il domani dell’Ucraina. Per il cui futuro si immaginano scenari che vanno dall’idea di un’Israele d’Europa perennemente armata fino ai denti contro le minacce russe fino a uno scenario coreano che veda un armistizio fissare confini de facto preceduto da un assestamento del fronte. Ma per Kiev l’idea stessa di rifiutare di pensare a un’exit strategy che passi per una soluzione diversa da un successo militare totale che – come si è analizzato su queste colonne – imporrebbe di superare ostacoli complessi pone problemi politici ed espone a un rischio. Quello, cioé, che la fine della guerra sia negoziata sopra la testa degli ucraini. Da Nato e Russia con un accordo di fatto, o magari esplicitamente da Mosca assieme ai soli Stati Uniti e, magari, alla Cina in un nuovo “concerto” tra grandi potenze che studiosi come Henry Kissinger evocano da tempo.

Tutti scenari per cui ad oggi la realtà sul campo non preme. Ma se lo stallo dovesse continuare molti cercheranno, nel mondo, di trovare una via d’uscita. E la beffa per i politici di Kiev potrebbe essere quella di non essere voce decisiva a riguardo, nonostante i sacrifici sul campo dei soldati e le dure sofferenze subite dalla popolazione.

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