La politica estera del Giappone non fa quasi mai notizia. Tokyo, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi, ha ridotto il coinvolgimento in affari internazionali (tranne sporadiche eccezioni, come nel recente caso dell’Iran) in nome di una linea politica concentrata solo ed esclusivamente in questioni interne. Il sole nascente, con i suoi raggi rosso fuoco che adornavano la bandiera di guerra dell’Esercito Imperiale Giapponese, è ormai tramontato, così come sono tramontati i sogni di gloria di un Paese che negli ultimi anni ha ricoperto un ruolo secondario – se non terziario – all’interno dell’ordine globale. In passato l’interesse del Giappone in politica estera andava a braccetto con la velleità espansionistica di un popolo desideroso di guidare l’Asia per superare lo strapotere occidentale. Tuttavia, la cocente sconfitta nel 1945 costrinse il governo nipponico a stilare una Costituzione pacifista che di fatto ha reso il Giappone un Paese inoffensivo dal punto di vista militare e militarmente dipendente dagli Stati Uniti.
La prima e unica base all’estero
La delicata situazione in cui si è ritrovato il Giappone ha spinto più volte Tokyo a riformare, senza successo, la Costituzione postbellica. Nei primi anni Duemila, con l’avvento di Abe Shinzo a ricoprire la carica di Primo Ministro, sembrava che potessero arrivare interessanti novità. Oggi Abe è nuovamente il leader del Giappone ed è riuscito rendere il pacifismo costituzionale una sorta di formalità senza alcuna riforma, tanto che il Paese asiatico ha aperto la prima e unica base militare all’estero. Nel 2011 il governo giapponese ha individuato nel Gibuti lo Stato ideale in cui investire circa 40 milioni di dollari per inaugurare un piccolo avamposto delle Japan Self-Defense Forces (JSDF), cioè le forze armate giapponesi.
Gli obiettivi di Tokyo
Il Giappone è sbarcato ufficialmente nel Gibuti con il suo esercito per contrastare la pirateria, una piaga che causa perdite miliardarie al commercio internazionale, molto intenso nell’area antistante il Corno d’Africa. In realtà la mossa di Tokyo nasconde almeno altre due obiettivi: ostacolare (o almeno monitorare da vicino) l’avanzata della Cina in Africa e ridare slancio all’apparato militare, considerato un tabù fino a pochi decenni fa. Anche Pechino, infatti, ha aperto qui la propria base militare, un hub logistico nonché appoggio per le missioni commerciali e diplomatiche del Dragone in tutta l’Africa. A pochi chilometri dal centro cinese sorge anche la base americana Camp Lemonnier, per sottolineare come la piccolissima repubblica del Gibuti sia diventata un territorio chiave per gran parte delle potenze globali.
L’espansione della base
La base giapponese inizialmente ospitava un contingente di circa 180 soldati e si estendeva, in affitto, in un’area di 12 ettari nei pressi di Camp Lemonnier. Tokyo versava nelle casse del governo gibutiano poco meno di 30 milioni di dollari all’anno per l’utilizzo militare di questa porzione di terra. Nel 2017 il Ministero della Difesa nipponico ha deciso di espandere la base a 15 ettari per limitare l’influenza cinese in Africa della Nuova Via della Seta di Xi Jinping; su scala planetaria Tokyo ha addirittura proposto un progetto infrastrutturale alternativo a quello di Pechino.
Le caratteristiche della base
La base militare giapponese in Gibuti è nata nel 2011 per consentire all’esercito del Giappone di operare in un’area strategica in modo indipendente e autonomo; infatti, prima di allora, le Forze di Autodifesa del Giappone (Jsdf) utilizzavano l’avamposto americano di Camp Lemonnier come hub logistico per le proprie operazioni. La base, costata 40 milioni di dollari, è adiacente al citato Camp Lemonnier, a pochi passi dall’Aeroporto Internazionale di Gibuti-Ambouli, con il quale ha anche un accesso diretto; inizialmente misurava 12 ettari, poi estesi a 15 per esigenze militari e politiche. In un primo momento il centro ospitava 180 fra soldati e membri della guardia costiera ed era dotato di un hangar per aerei; successivamente si è aggiunta l’autodifesa marittima giapponese, ovvero il ramo marittimo delle Forze di Autodifesa del Giappone, con un cacciatorpediniere, mezzi di sorveglianza marittima antipirateria e due P-3C, cioè velivoli da ricognizione.
A cosa serve la base
L’obiettivo principale della base giapponese in Gibuti è offrire a Tokyo un avamposto per tutelare gli affari della Nazione in Africa e difendere dalla pirateria le proprie imbarcazioni che devono transitare dal Corno d’Africa per attraversare il Canale di Suez. La pirateria è infatti assai diffusa in tutta la regione ed è necessario un attento monitoraggio per prevenire attacchi. Grazie alla base, il Giappone ha inoltre iniziato il suo lungo percorso per eludere la Costituzione pacifista che impedisce al Paese di formare truppe di combattimento. Al momento i militari presenti in Africa sono definiti di supporto per operazioni umanitarie coadiuvate dall’Onu; i mezzi da guerra sono invece utilizzati in risposta a disastri naturali o per offrire aiuti umanitari in aree africane di crisi. Infine c’è un altro motivo che ha spinto Tokyo a costruire un avamposto a queste latitudini: ostacolare l’avanzata della Cina in un’area sempre più affollata. Così come Pechino, anche il Giappone ha interesse nel costruire relazioni commerciali con i governi africani, quindi, al fine di incrementare il soft power con le citate missioni ausiliari per vantaggi personali, i giapponesi devono necessariamente incrementare la propria presenza nel Gibuti.