Sulle alture del Caucaso è stata scritta la storia lo scorso anno, più precisamente tra la fine di settembre e l’inizio di novembre. Affrontandosi fino all’ultimo uomo, mobilitando tutti i loro alleati e ricorrendo ad ogni arma loro disponibile, Baku ed Erevan hanno accelerato la fine dell’epoca post sovietica nel Caucaso meridionale e gettato le fondamenta di una nuova era: oltre sovietica.
Gli spettatori delle relazioni internazionali potranno comprendere pienamente gli effetti e le conseguenze di questo cambio di paradigma soltanto nel medio-lungo periodo, ma una cosa sembra essere certa già da ora, o meglio già dallo scorso novembre: la seconda guerra del Karabakh ha rimescolato le carte nel Caucaso meridionale, arricchendo i mazzi di tutti i giocatori, specie di Azerbaigian e Turchia, con l’eccezione dell’Armenia.
La vittoria nel conflitto ha apportato e continuerà ad apportare benefici e vantaggi a Baku – che dallo scorso novembre è la grande corteggiata di un numero crescente di potenze, persino da Parigi –, ma i traumi bellici non mancano. Traumi relativi alle perdite registrate, così come traumi legati al fragore dei bombardamenti e alle immagini dei combattimenti. Traumi come quella scia di attacchi inattesi (e illegali) che in Azerbaigian vengono ricordati come Gəncə bombalanmaları, ovvero il bombardamento di Ganja.
Gli attacchi missilistici su Ganja
Ganja è un urbe di poco più di 300mila abitanti, ed è uno dei luoghi più caratteristici e pittoreschi del Paese. Similmente a Baku, la capitale, questa grande realtà urbana è lo specchio perfetto della multiculturalità della nazione azerbaigiana: secolare nel pensiero, turca nell’architettura e globale nella storia – è stata il gioiello del Caucaso sia per i persiani dell’era Qajar sia per i russi dell’epoca zarista.
Ganja non si trova nelle terre martoriate e insanguinate del Karabakh, la vena scoperta del Caucaso meridionale, ma questo non l’ha protetta nel corso della guerra dei quarantaquattro giorni combattuta lo scorso anno dall’Azerbaigian e dall’Armenia. Ganja, al contrario, è entrata a sorpresa nel mirino del blocco armeno nel mese di ottobre, all’acme degli scontri, e continua a portare con sé il trauma di quei momenti.
Non è dato sapere perché, sebbene a Baku sia opinione comune che Erevan sperasse di spopolare la città facendo leva sull’induzione della paura – guerra psicologica allo stato puro –, ma il quando è arcinoto: 4, 8, 10 e 17 ottobre. Quattro notti di bombardamenti improvvisi, ma per nulla improvvisati – perché condotti missili ballistici di tipo Scud –, partiti dalle postazioni delle forze di occupazione dell’Armenia. Notti che hanno lasciato a terra 32 morti e 125 feriti, annichilendo intere famiglie e stroncando la vita di civili innocenti, tra i quali diversi bambini.
Baku avrebbe accelerato la cattura di Fuzuli come ritorsione agli attacchi su Ganja – che costituiscono un vero e proprio crimine di guerra, perché trattasi di un centro estraneo al conflitto e, soprattutto, squisitamente civile – e, forte di un’opinione pubblica quanto mai unita e supportiva, avrebbe trovato la forza per sveltire la sottomissione delle forze militari dell’Armenia.
Oggi, a nove mesi dalla fine della guerra, azerbaigiani e turisti possono letteralmente percepire la vittoria, vedendola con gli occhi e toccandola con le mani, perché dalle metropoli ai villaggi, e dalle mura dei palazzi ai nastri delle bottiglie d’acqua, v’è una scritta che compare in maniera imperante, notte e giorno: Qarabağ Azərbaycandır, ovvero il Karabakh è Azerbaigian. Una vittoria che ha alimentato un moto di patriottismo senza precedenti, investendo ogni fascia d’età e classe sociale, ma che in alcuni luoghi, come i quartieri di Ganja caduti sotto il fuoco dell’Armenia, viene vissuta diversamente.
Perché a Ganja, contrariamente al fronte, le vittime erano dei civili. Qui hanno trovato la morte intere famiglie, come i Shahnazarli – un nucleo di quattro persone ridotto ad una sola, una bambina di tre anni. E qui hanno trovato la morte dei neonati, come Narin Asgarova, di soli dieci mesi. Qui, comunque, è morta gente di ogni età, da Nureddin Agayev (77) a Nigar Asgarova (deceduta la notte del 17, avrebbe compiuto 15 anni il giorno successivo), e nulla è sfuggito alla letale amoralità dei missili balistici (e di coloro che li hanno lanciati), dagli edifici residenziali ai parchi giochi.
Il trauma di Ganja
A Ganja si festeggia, perché la vittoria è nell’aria, ma gli animi e gli umori sono di gran lunga più cupi rispetto a Baku. Qui si celebra il recupero del Karabakh, sì, ma con maggiore moderatezza. Perché qui ci sono delle macerie da osservare, e presso le quali fermarsi a riflettere. E perché qui, più che altrove, ci sono dei morti innocenti da piangere.
Forse il blocco armeno confidava realmente nel potenziale terrificante della guerra psicologica, sperando di annullare l’effetto dell’inevitabile caduta di Fuzuli con la presa di Ganja, forse voleva guadagnare tempo capitalizzando militarmente la demoralizzazione del popolo azerbaigiano o forse, molto più semplicemente, non voleva disseminare che paura. Un’altra pista, tuttavia, non è da escludere aprioristicamente: quella dell’aspettativa di un allargamento del conflitto al territorio armeno. Perché un’aggressione dell’Azerbaigian alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Armenia, invero, avrebbe giustificato la richiesta di attivazione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva da parte di Nikol Pashinyan. Richiesta che il Cremlino avrebbe potuto declinare, sì, ma che, comunque, funge innegabilmente da potente deterrente.
Una lettura a posteriori e a freddo di quei giorni sembra suggerire che Pashinyan, più che anelare allo spopolamento di Ganja, fosse certo di scatenare una rappresaglia asimmetrica da utilizzare per rovesciare le sorti del conflitto. Un rischio calcolato, quello dell’assalto missilistico a Ganja, che all’Armenia è costato dapprima una pioggia di accuse per violazione del diritto internazionale umanitario e dipoi la sconfitta. Perché Baku, nella piena cognizione dei rischi associati ad un’estensione della guerra – politici, come l’intervento dell’OTSC, economici, cioè la sostenibilità, e militari, ovvero l’efficacia della dronizzazione su un campo di battaglia più esteso e difeso –, avrebbe trasformato quel trauma inibitorio in un evento stimolante.
Oggi, a distanza di dieci mesi da quell’ottobre di sangue, Ganja sta tornando alla normalità. I palazzi colpiti dagli Scud continuano a giacere lì, in rovina, nell’attesa di essere sostituiti da nuove costruzioni. E anche le foto delle vittime continuano a giacere lì – e lì resteranno, affinché i posteri possano ricordarle, onorarle e commemorarle.