Nella giornata di giovedì 23 novembre i governi di Myanmar e Bangladesh hanno concluso un accordo volto a gestire e regolamentare il rimpatrio dei profughi Rohingya, fuggiti a centinaia di migliaia dallo Stato federale di Rakhine, nell’ex Birmania, oltre i confini bengalesi. La fuga dei Rohingya, dall’ottobre 2016 a oggi, ha interessato 620mila persone ed è stata causata dalle crescenti persecuzioni delle forze di sicurezza birmane nei confronti della minoranza musulmana, che hanno causato oltre 2mila vittime in un clima teso ed esacerbato da ripetute violazioni dei diritti umani come deportazioni forzate, rapine, uccisioni extragiudiziarie e stupri, negate con fermezza dal governo di Naypyidaw.
Il giro di vite dell’esercito birmano è andato ben oltre l’iniziale obiettivo delle operazioni militari nello Stato del Rakhine, che miravano a respingere gli attacchi dei militanti separatisti dell’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA): la proporzione della persecuzione si è fatta sempre più notevole mese dopo mese, sino ad assumere i tratti distintivi della pulizia etnica verso una delle minoranze maggiormente perseguitate al mondo. Prima perseguitati dalla giunta militare e dagli ultranazionalisti buddhisti, i musulmani Rohingya non trovano pace nemmeno nella nuova Birmania democratica che vede la sua leadership egemonizzata dall’ex Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, Consigliere di Stato e Ministro degli Affari Esteri dell’attuale governo.
Definita da Fulvio Scaglione “democratica latitante”, Aung San Suu Kyi è stata complice del dramma dei Rohingya, esprimendosi con freddi e ostentati silenzi di fronte agli appelli del mondo per la cessazione delle violenze, prima che le pressioni di personaggi del calibro dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e del Segretario di Stato americano Rex Tillerson spingessero Aung San Suu Kyi a una trattativa dettata, al tempo stesso, da impellenti necessità tattiche.
Il viaggio del Papa in Oriente e la sua influenza sull’accordo sui Rohingya
L’approssimarsi dell’atteso viaggio di Papa Francesco in Myanmar e Bangladesh, iniziato oggi, ha spinto i governi dei due Paesi ad accelerare le discussioni sui Rohingya al fine di poter presentare al mondo risultati concreti sulla questione in una fase che, complice l’arrivo del Pontefice, avrebbe riportato le attenzioni del mondo sulla regione.
Visitando Naypyidaw nella giornata del 23 novembre, il Ministro degli Esteri di Dacca, Abul Hassan Mahmood Ali, ha concordato con Aung San Suu Kyi un piano di rimpatrio dei 620.000 profughi Rohingya che dovrebbe iniziare ad essere dispiegato tra due mesi: tuttavia, la frettolosa conclusione delle negoziazioni punta a ritenere possibile l’insorgenza di gravi difficoltà nell’implementazione dell’accordo. Come sottolineato dall’UNHCR, un rimpatrio dei Rohingya non sotteso da adeguate decisioni volte a garantire la fine delle persecuzioni risulterebbe nocivo alle istanze dei profughi.
Tra campi profughi e restrizioni legali
Nel frattempo, le condizioni di vita delle centinaia di migliaia di Rohingya ammassati nei campi profughi del Bangladesh, a cavallo tra un Paese che con forza li ha respinti e uno Stato che è scarsamente propenso ad ospitarli, si stanno facendo sempre più spaventose, come riportato da Hannah Beech per il New York Times.
In un recente reportage per L’Espresso, Francesca Marino ha descritto il dramma dei Rohingya attirando l’attenzione sulla difficile realtà politica che impedirebbe, al di là di qualsiasi accordo, un reale ritorno alla normalità per questa sfortunata popolazione: “Secondo una legge del 1982, ai Rohingya non è consentito viaggiare senza ottenere un permesso speciale, non gli è concesso possedere terreni o proprietà immobiliari, sono soggetti a limitazioni del regime legale in materia di matrimoni e sono costretti a firmare, quando si sposano, un impegno a non mettere al mondo più di due figli. Non solo: sono soggetti a vere e proprie estorsioni e a lavorare in regime di semi-schiaviù alle dipendenze dell’esercito e del governo”.
Il ruolo di Papa Francesco nella questione Rohingya
Come riporta La Difesa del popolo, il viaggio apostolico di Papa Francesco in Birmania e Bangladesh verterà su due pilastri, “geopolitica e dialogo interreligioso”: in Oriente saranno messe alla prova le capacità diplomatiche di un Vaticano sempre più inserito nel contesto multipolare e le abilità di mediazione del Pontefice, che oltre ad Aung San Suu Kyi vedrà in un serrato giro di colloqui un piccolo gruppo di rappresentanti Rohingya, il capo dell’esercito del Myanmar, generale Min Aung Hlaing e l’arcivescovo di Yangon Charles Maung Bo, rappresentante dei cattolici birmani, che rappresentano circa l’1% della popolazione.
La postura del Papa sarà fondamentale per determinare l’evoluzione dello scenario dei Rohingya: un avallo, più o meno esplicito, di Francesco all’accordo del 23 novembre potrebbe favorire il riavvicinamento tra Bangladesh e Myanmar sulla questione, mentre al contrario delle critiche, più o meno velate, metterebbero in discussione la presunta, nuova volontà del governo di Naypyidaw. Una cosa è certa: Papa Francesco, per i Rohingya, non è solo un protettore, ma è considerato anche il principale portavoce negli scenari internazionali.