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L’Iraq si avvia a celebrare, nella giornata del 12 maggio, le prime elezioni parlamentari dopo lo smantellamento dell’entità statale dell’Isis in un clima di profonda incertezza. 

Quasi 7mila candidati competeranno in un voto che designerà i 329 parlamentari in carica per i prossimi quattro anni all’interno del Consiglio dei Rappresentanti; toccherà appunto ai nuovi eletti di questo mandato la scelta del Presidente iracheno e del Primo Ministro.

Come riporta Oltrefrontiera News, l’appuntamento assume importanza cruciale, dato che “il futuro governo avrà il delicato e complesso compito di ricostruire l’Iraq. Il termine ricostruzione è in quest’occasione quanto mai polivalente: si tratta innanzitutto della ricostruzione materiale, infrastrutturale del Paese […] Inoltre, ed è questo senza dubbio il compito più ostico, l’Iraq necessità più che mai di un intervento di ristrutturazione politico-sociale, capace di catturare fermi consensi al di là delle fratture settarie e intra-settarie, al fine di creare un sistema-Paese stabile, funzionante, e titolare univoco dell’utilizzo della forza, finalizzata alla sicurezza dei propri cittadini”.

Il Primo ministro uscente Haider al-Abadi ha cercato di sviluppare una coalizione trasversale che dal suo stesso nome (Nasr al-Iraq, ovvero “la Vittoria dell’Iraq“) richiama all’unità nazionale difesa dall’assalto dei jihadisti. Tuttavia, l’aspra competizione rivolta in campo sciita dalla fazione politica delle Unità di Mobilitazione Populare (PMU), agguerrite milizie decisive nel contrasto al Califfato, e dall’inossidabile imam Muqtada al-Sadr ha portato al-Abadi a considerare prioritario il compattamento della maggioranza etnico-religiosa a suo favore. In questo contesto, il Primo ministro uscente non ha esitato a capitalizzare a suo vantaggio la massiccia vendetta che sta andando in scena contro gli ex combattenti dell’Isis e i loro famigliari.

Le condanne a morte a raffica del dopo-Isis

La vittoria sull’Isis, infatti, ha lasciato in mano alle forze irachene migliaia di ex militanti dell’organizzazione terroristica, in larga misura sunniti originari del Paese, ma anche foreign fighters, e un imprecisato numero di loro famigliari. Il governo iracheno ha ritenuto essere un suo compito primario impartire una punizione rapida ed esemplare ai combattenti catturati: dalla caduta di Mosul, nell’estate scorsa, ad oggi, i tribunali penali e militari lavorano a pieno ritmo impartendo centinaia di condanne a morte per impiccagione.

Nel settembre 2017, la Bbc ha realizzato un servizio da Qaraqosh, la città a 30 km da Mosul in cui andavano in scena i processi-lampo contro i jihadisti, della durata media di 30 minuti, che si concludevano con una media di 50 esecuzioni al giorno. Nel braccio della morte, in Iraq, vi sono oggi oltre 6mila persone: i ritmi della giustizia punitiva irachena portano a ritenere dubbie numerose di queste sentenze, in primis quelle comminate contro presunte mogli o vedove di jihadisti, e a sancire un’impennata rispetto alle 169 esecuzioni andate in scena in Iraq nel 2013, anno precedente all’ascesa dei sodali di al-Baghdadi. 

Ultimamente, i tribunali e le prigioni irachene hanno accelerato nell’uso delle esecuzioni di massa: nella sola Nasiriyah sono andate in scena 36 impiccagioni il 21 agosto scorso, 42 il 25 settembre e 38 il 21 dicembre.

La pena di morte in Iraq è riservata ai sunniti

Nel gennaio scorso Paolo Mieli sul Corriere della Sera ha sottolineato le distorsioni della giustizia irachena: “Il ministro della Giustizia Haidar al-Zariri ha spiegato che le condanne a morte erano state, a novembre, 459 a fronte di 1.490 assoluzioni e in ciò, a suo dire, sarebbe la prova di una giustizia amministrata con equità. Ma l’organizzazione Human Rights Watch ha fatto presente che in alcuni casi i processi sono durati poco più di un’oretta, Amnesty International ha eccepito circa la loro regolarità e il pur contestato Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite guidato dal principe giordano Zeid Raad Zeid al-Hussein ha chiesto l’immediata sospensione delle esecuzioni irachene. In Italia soltanto l’associazione radicale ‘Nessuno tocchi Caino’ ha dato prova di una qualche sensibilità nei confronti di questa orribile carneficina”.

Il fatto che la stragrande maggioranza dei condannati a morte sia di estrazione sunnita porta a ritenere che la vendetta dell’Iraq sui “sopravvissuti dell’Isis” possa rappresentare un serio ostacolo alla ricostruzione sociale e materiale del Paese, alimentando una frattura settaria dell’Iraq che potrebbe avere effetti catastrofici per gli sciiti, per i sunniti ma, soprattutto, per i cristiani del Paese. Il governo che nascerà dalle elezioni irachene dovrà tenere ben presente le lezioni della storia e ricordare l’insegnamento di Tiziano Terzani: “Il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali”. Miseria, sottosviluppo, disuguaglianze economiche e rivalità etnico-religiose in primis.

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