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La guerra in Siria non finirà con Ghouta Est, ormai è chiaro. Altre forze si muovono per continuare il grande gioco siriano e il blocco che fa leva su Assad si troverà a dover gestire una situazione ancora più grave. La sacca di Ghouta, paradossalmente, è un problema siriano. A nord, invece, le forze armate di Damasco e le milizie ad esse collegate si trovano a dover confrontarsi con un’entità ben più forte, organizzata e tendenzialmente in grado di prendere il controllo della situazione (se non l’ha già fatto): la Turchia.

Come spiegato da Giordano Stabile per La Stampa, Erdogan sta preparando il terreno per estendere la sua area d’influenza oltre il confine siriano. “La battaglia attorno ad Afrin è l’aspetto visibile” spiega l’inviato del quotidiano di Torino, “dietro lo schermo della frontiera i preparativi vanno verso la creazione una zona cuscinetto più profonda, con due punti critici: le città di Idlib e Manbij, i veri obiettivi strategici.”.





La situazione, dunque, è molto più complessa e profonda di quanto si potesse immaginare. Le forze speciali turche operano in diversi scenari al di là del confine e hanno preso contatti sia (ovviamente) con le milizie ribelli sostenute dal governo di Ankara sia con moltissimi rifugiati siriani fuggiti dalla guerra e che adesso rappresentano per il presidente Erdogan una pedina formidabile. Il punto più critico è Manbij perché lì esiste un problema di natura strategica enorme: le forze speciali americane possiedono una base operativa con cui coordinano le attività delle forze curde dell’Ypg. Sono lì dai tempi della controffensiva ai terroristi dello Stato islamico e non se ne sono più andati. La posizione è strategica, interrompe il corridoio sciita con il Mediterraneo e possono controllare sia l’avanzata turca che quella delle forze di Teheran che passano l’Iraq e giungono in Siria. Erdogan, durante il vertice con Tillerson ad Ankara, è stato molto chiaro: vuole i curdi dell’Ypg al di là dell’Eufrate. Una volta ottenuto questo, gli americani non rappresentano chiaramente alcun problema, visto e considerato che la Turchia è ancora parte della Nato e non può certo dare ordini agli Stati Uniti.

I ribelli della sigla Jaysh al-Khor, l’esercito libero siriano, collegati ad Ankara, sono in stato di allerta. La città di Manbij è in una situazione disastrosa e la popolazione è pronta a cacciare le milizie curde qualora dovessero giungere le forze armate turche per assediare la popolazione ormai allo stremo delle forze. A quel punto, le forze curde potrebbero anche decidere di ritirarsi, visto che sì, controllano il municipio, ma gli abitanti della città sono a maggioranza araba. Una mossa simile a quella fatta da Idlib, dove i turchi stanno sostenendo gli jihadisti di Ahrar al-Sham e Al-Zinki contro al-Qaeda, che ha preso possesso della città dopo essersi sbarazzata dei primi ribelli filo-turchi.

La manovra avvolgente di Erdogan vede dunque l’operazione Ramoscello d’Ulivo come la punta dell’iceberg di una campagna iniziata da molto prima e che aveva già il terreno seminato. In particolare a Jarabulus. I professori turchi insegnano in alcuni villaggi di confine, la bandiera di Ankara viene sventolata per le strade di alcuni paesi. Le forze di polizia locale sono addestrate dall’esercito turco ed esistono ormai contatti sempre più forti, anche a livello politico, fra i rifugiati al di là del confine e questi territori. Erdogan sta facendo pressioni su tutti per cercare di ottenere quello che vuole: estendere la sua influenza nel nord della Siria. E la sua speranza è che i curdi siano isolati da tutti. In particolare dagli Stati Uniti. La mossa delle Ypg di far entrare le forze di Assad ad Aleppo e Afrin è usata da Erdogan come dimostrazione, per gli Usa, che dei curdi non ci si può fidare. E Washington ha già iniziato, gradualmente, ad abbandonarli. I contatti sempre più forti fra curdi e Damasco, ma sopratutto con Mosca e Teheran, potrebbero far cedere definitivamente gli Stati Uniti e preferire Erdogan alla possibilità che l’Ypg contribuiscano al corridoio sciita.

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