Il 2020 sarà ricordato come l’anno della pandemia di covid-19 e in Africa, sebbene il virus non abbia fatto registrare contagi e decessi come in Europa e in altre zone del pianeta, l’infezione ha comunque creato delle enormi problematiche soprattutto dal punto di vista economico. Secondo l’Unione Africana l’epidemia nel prossimo anno farà perdere oltre 20 milioni di posti di lavoro in tutto il continente e inoltre si registrerà, stando un report delle Nazioni Unite, una drastica riduzione delle rimesse, le stime parlano di un calo del 21%: un dato allarmante dal momento che per l’economia africana i fondi che provengono dalla diaspora ( nel 2019 furono quantificati in 85 miliardi di dollari ) sono linfa vitale, molto più degli aiuti allo sviluppo. All’interno di questo contesto di estrema fragilità il continente africano sta affrontando anche un’altra crisi: quella politica. Molti sono i Paesi, dalle coste del Mediterraneo al Capo di Buona Speranza, che stanno affrontando empasse governative e drammi umanitari. Dalle insorgenze jihadiste sempre più capillari a elezioni che rischiano di minare le fragili democrazie del continente, dall’esplosione di nuovi conflitti ai colpi di stato. L’Africa intera è chiamata in un futuro prossimo a importanti sfide; un banco di prova cruciale per la pace e lo sviluppo del continente, ed è importante quindi prendere in esame le situazioni più calde e delicate perchè le conseguenze di quello che si sta registrando ora a sud del Sahara possono abbattersi nel breve termine anche sull’Europa e il resto del mondo.
Etiopia: dal Nobel per la pace alla guerra intestina
Nel 2019 il premier etiope Abiy Ahmed venne premiato con il Nobel per la Pace per aver messo fine alle ostilità con la vicina Eritrea. A distanza di dieci mesi, il leader etiope però ha dato inizio a una guerra civile tra i confini del secondo paese più popoloso d’Africa, l’Etiopia vanta una popolazione di 110milioni di abitanti, innescando un dramma umanitario di proporzioni immani. La notte tra il 3 e il 4 novembre Abiy Ahmed ha annunciato alla nazione l’inizio delle operazioni militari nella regione settentrionale del Tigrai dipingendo l’offensiva militare come reazione a un attacco condotto dalle forze armate del partito del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai. Le cause all’origine del conflitto non sono soltanto etniche ma anche politiche. Dalla sua elezione nel 2018 ad oggi Ahmed ha estromesso importanti leader politici tigrini dal governo e ha attuato politiche repressive nei confronti della minoranza del Paese.
La rottura definitiva con la regione autonomista, popolata da 5 milioni di persone e che può vantare un esercito di 250mila effettivi, é avvenuta a settembre quando nel Tigrai, nonostante il veto imposto da Addis Abeba, sono andate in scena le elezioni che hanno confermato il potere del Tplf che alle urne ha vinto con il 98% delle preferenze. Da quel momento le provocazioni sono state continue e hanno portato all’escalation militare dei primi di novembre. I toni, sia del governo centrale che di quello di Maccalé, presideuto da Debretsion Gebremichael, sono stati da subito pugnaci e belligeranti, tutti gli interventi di mediazione internazionale sono stati respinti dal governo di Addis Abeba e si sono già registrate stragi di civili come quella compiuta, secondo Amnesty International, dai ribelli tigrini a Mai Kadra e che ha causato la morte di 600 persone. E mentre i combattimenti proseguono incessanti intanto si è registrato un esodo di 25mila persone nel vicino Sudan e nelle ultime ore il primo ministro Abiy Ahmed ha lanciato un ultimatum al Tplf dichiarandosi pronto all’offensiva finale. La preoccupazione per le conseguenze del conflitto è enorme: un attacco alla città di Maccallé metterebbe a rischio mezzo milione di civili e una balcanizzazione dell’Etiopia rischierebbe di minare i fragili equilibri del Corno d’Africa e avere ripercussioni sociopolitiche drammatiche in tutto il continente.
La guerra scongelata nel Sahara Occidentale
Un altro fronte che si è riaperto in Africa è quello del Sahara Occidentale. Dal 13 novembre, nella regione del Guarguaret, zona di confine tra Marocco e Tunisia, è riesplosa la guerra tra Rabat e il Fronte Polisario. Il Sahara Occidentale, colonia spagnola dalla fine dell’800, dopo la morte di Franco è divenuto territorio di conquista da parte della monarchia marocchina che ha cercato di occupare e annettere la regione a spese della popolazione Saharawi che dagli anni ’70 ad oggi ha reagito organizzando una strenua resistenza riunendosi intorno al Fronte Polisario che ha liberato alcune aree per lo più desertiche e nel 1976 ha proclamato la nascita della Rasd-Repubblica Araba Saharawi Democratica, oggi riconosciuta da 51 stati dell’Unione Africana e da una trentina di altri paesi. Nel 1984 la costruzione di un muro di oltre 2700 chilometri da parte del governo marocchino ha diviso il territorio dei Saharawi e gran parte degli abitanti della regione tutt’oggi vive o in tendopoli nel deserto o nella terra contesa senza alcuna libertà di movimento. A nulla, finora, sono valsi gli sforzi dell’Onu che nel 1991 ha inviato una missione internazionale, la Minurso, con l’obiettivo di risolvere il contenzioso e indire un referendum sull’autodeterminazione che però ancora non è stato fatto. E ora come non mai sembra allontanarsi la possibilità di arrivare a un risoluzione del problema vista l’escalation militare degli ultimi giorni.
Il motivo dell’acuirsi delle tensioni è da ricercare nella penetrazione nel valico di frontiera di Guerguerat, che collega il Sahara Occidentale meridionale con la Mauritania, da parte dell’esercito di Mohamed VI. Nella zona cuscinetto tra Marocco e Sahara Occidentale è presente l’unica strada che collega il Paese del Maghreb con la Mauritania e quindi con l’Africa Occidentale. Da quattro anni Rabat vuole terminare l’ultimo tratto della via di comunicazione ma in base all’articolo numero 1 degli accordi di pace firmati da entrambe le parti non è consentito a uomini armati, né dell’esercito regolare né del Fronte Polisario, entrare nel valico di Guerguerat. Alla penetrazione delle truppe regie hanno fatto seguito giorni di proteste da parte della popolazione Saharawi e in breve tempo la situazione è degenerata portando a una dichiarazione di guerra. Dopo trent’anni le sabbie del Sahara meridionale sono di nuovo incandescenti e una delle prime conseguenze che questo conflitto ha provocato è stata l’aumento degli sfollati. In queste ore si sta registrando un picco di sbarchi alle Isole Canarie dove, da gennaio ad oggi, si contano 17mila arrivi di cittadini africani, rispetto ai 2’700 di tutto il 2019.
Urne, brogli e scontri: le elezioni esplosive del continente
Un anno anche di elezioni importanti questo 2020 per il continente africano. Ad ottobre sono andate in scena le votazioni in Guinea, dove Alpha Condé ha ottenuto, con il 59,5 per cento dei voti, un terzo mandato da presidente dopo aver messo mano alla costituzione per poter presentarsi di nuovo alle urne. Le strade di Conakry hanno visto barricate, scontri, feriti e morti e, nonostante il ricorso e l’accusa di brogli da parte dei leader dell’opposizione, il potere è rimasto ben saldo nelle mani di Condé. Una situazione analoga si è presentata anche in Costa d’Avorio. Il gigante dell’Africa occidentale, cruciale per gli sviluppi economici della regione, ha vissuto e continua a vivere momenti di massima tensione dopo l’ultima tornata elettorale. Le elezioni in Costa d’Avorio si sono tenute il 31 ottobre e hanno visto la vittoria del presidente Alassane Ouattara, eletto nel 2015 e, prima ancora, nel 2010. Il presidente in carica ha vinto con il 94% dei voti in virtù anche del fatto che i candidati dell’opposizione hanno chiesto ai propri elettori di non votare e di boicottare le urne e le accuse di incostituzionalità, per la terza elezione di Ouattara, hanno dato origine a proteste che ad oggi hanno causato la fuga di oltre 8000 persone dal Paese africano. Il timore è che la violenza possa di nuovo travolgere uno stato diviso politicamente e geograficamente e che vent’anni fa è stato il teatro di una guerra civile durata oltre cinque lustri, costata la vita a migliaia di persone e che ha lasciato ferite mai del tutto sanate.
L’esito delle urne lo sta attendendo anche il Burkina Faso, il Paese saheliano divenuto negli ultimi anni il proscenio dell’avanzata jihadista e di una crisi umanitaria che stando ai dati del report di Medici Senza Frontiere ha condannato oltre 850’000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni. Ma molto interesse e apprensione hanno suscitato gli esiti delle votazioni in Tanzania dove, tra accuse di brogli e repressione delle opposizioni, è uscito vincitore dalle urne il presidente uscente John Magufuli. La Tanzania, un tempo simbolo di democrazia e progresso per l’intero continente africano, ora sta sempre più precipitando in una spirale autoritaria. L’esecutivo di Magufuli si è contraddistinto per intimidazioni e arresti ai danni di politici dell’opposizione, limitazioni per l’utilizzo di social network, discriminazioni nei confronti di omosessuali e negazionismo anche nell’affrontare la pandemia di coronavirus. Il solco della deriva totalitaria è stato tracciato ma la Tanzania non è il solo Paese africano a volerlo percorrere come mostrano i risultati usciti dalle urne africane in questo 2020.
L’espansionismo jihadista in Africa
Il continente africano sta catalizzando sempre più i sogni espansionistici delle innumerevoli formazioni che popolano la galassia dell’internazionalismo jihadista. Il gruppo che al momento controlla intere porrzioni di territorio è che è riuscito a istituire un proprio fortilizio del terrore è la sigla qaedista somala Al Shabaab. Gli jihadisti somali, negli anni, hanno affinato le proprie tecniche insurrezionali non limitandosi, nella loro opera di diffusione del jihad, soltanto a praticare la guerra di guerriglia ma creando anche un sistema di intelligence, di imprenditoria e di tassazione che ha permesso loro di ottenere enormi profitti e istituire un sistema statuale nelle zone dove governano. La Somalia, che negli anni ha combattuto militarmente e culturalmente contro i terroristi somali, non è uscita vincitrice dallo scontro con gli islamisti e ora sta affrontando anche un empasse politica dal momento che l’esecutivo, orfano di un primo ministro dimissionario, non è ancora riuscito a stabilire quale sarà il sistema elettorale che verrà applicato durante le elezioni del 2021.
La fragilità del governo di Mogadiscio, il ritiro delle truppe americane annunciato da Trump e l’affermarsi del radicalismo islamico rischiano di far precipitare in una crisi sociale, culturale, politica e umanitaria l’ex colonia italiana vanificando così tutti gli sforzi e tentativi messi in atto dalla popolazione somala e dalla comunità internazionale per traghettare il Paese fuori dal dramma che il Paese ha vissuto negli ultimi 30 anni. Il Sahel e il Corno d’Africa rimangono le due roccaforti principali dell’espansionismo salafita, Somalia, Ciad, Nigeria, Mali sono oggi i principali terreni di conquista da parte dei gruppi terroristici ma negli ultimi mesi si sta assistendo a un’avanzata della ribellione islamica anche a sud dell’Equatore. Nella Repubblica Democratica del Congo è stata proclamata la nascita dell’ ISCAP (Islam State Central African Province) ma a destare maggior preoccupazione è quanto sta accadendo in Mozambico. Nel Paese dell’Africa australe gruppi jihadisti stanno compiendo stragi e conducendo attacchi continui nelle province settentrionali e la loro espansione, unita alla delicata situazione economica e politica della nazione e alla presenza di ricchi giacimenti di minerali e idrocarburi, fa presupporre che la guerra islamista si incrudelirà nei prossimi mesi ed è ormai evidente che anche il sud del continente africano è stato infettato dalla violenza dell’islamismo.