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Mare di Okhotsk, nell’estremo oriente dell’Unione Sovietica, là dove la penisola di Kamchatka si allunga separando il continente dall’Oceano Pacifico. Siamo nell’ottobre del 1971 ed un sottomarino per operazioni speciali americano, l’Uss Halibut, si posa silenziosamente sul fondale di 120 metri di quel gelido braccio di mare che è ben al di dentro delle acque territoriali sovietiche. Dal sottomarino escono dei sommozzatori, degli specialisti probabilmente addestrati dai Seal della Marina, che si dirigono verso il loro obiettivo: un cavo di comunicazioni sottomarino che collega la penisola, sede di numerose e segrete installazioni militari sovietiche tra cui la base navale di Petropavlovsk, con Vladivostok, sede della Flotta Rossa del Pacifico.

Il personale installa sul cavo un dispositivo, lungo circa sei metri, che, senza perforarne o intaccarne l’involucro, permette agli americani di intercettare tutte le comunicazioni che i sovietici si scambiano lungo il collegamento. Comunicazioni che non erano nemmeno criptate in quanto Mosca considerava inviolabile quel tratto di mare e impossibile che si potesse effettuare qualche tipo di spionaggio sul cablaggio. L’operazione, denominata Ivy Bells, fu un successo e durò ben 10 anni, interrotta solamente dal tradimento di un funzionario dell’Nsa (National Security Agency) che rivelò il segreto ai sovietici per soldi.

Ottobre 2015. Oceano Atlantico, al largo della costa orientale degli Stati Uniti. Una nave spia russa, la Yantar, sta navigando verso Cuba. Sembrerebbe un normale servizio di raccolta informazioni sull’attività della flotta americana, ma i sensori subacquei della catena Sosus (Sound Surveillance System) rilevano l’anomale presenza di sottomarini russi là dove sono posati i cavi sottomarini che collegano il continente nordamericano ai Caraibi e al Sudamerica. Sebbene i russi abbiano smentito più volte che la Yantar sia una nave spia, l’intelligence Usa sa che il vascello è in grado di raccogliere i dati dei sottomarini e soprattutto di mettere in mare piccoli Uuv (Unmanned Underwater Vehicle)  in grado di tagliare i cablaggi nelle profondità oceaniche.

Un mondo iperconnesso che dipende sempre più dai cavi

Si crede, erroneamente, che le comunicazioni oggi viaggino per la maggior parte attraverso l’etere, via segnali radio o via satellite. Complice l’avvento della telefonia mobile ed il suo enorme sviluppo che ci permette di inviare file da un capo all’altro del mondo usando un telefono cellulare, riteniamo che le telecomunicazioni via cavo appartengano ad un’altra era: nulla di più sbagliato.

È stato calcolato che il 95-97% delle informazioni scorra attraverso una fitta rete di cablaggi che corrono per più di 1,2 milioni di chilometri tra tutti i continenti. Ai satelliti è devoluto il compito – in condizioni normali – di trasmettere solo la restante percentuale, pari circa al 3-5%.

Non solo. La domanda è tale che questo tipo di infrastrutture sta conoscendo uno sviluppo esponenziale supportato da una pioggia di dollari. Per fare un esempio: nel solo 2017 la domanda globale di larghezza di banda dei cablaggi sottomarini è aumentata del 57%. Si è aperto così un mercato – quello della posa di nuovi cavi – in cui le industrie del web si sono gettate a capofitto con miliardi di investimenti.

Storicamente i cavi sono di proprietà di compagnie private, di solito telefoniche, che affittavano l’utilizzo degli stessi a Google, Microsoft e alle altre società di internet. Ora sono proprio i colossi di internet a costruire e posare i cablaggi: a partire dal 2016 c’è stato un vero e proprio boom di posa di cavi da parte di Google, Facebook, Amazon e Microsoft. A farla da padrone è proprio il motore di ricerca più famoso del mondo con più di 100mila chilometri di cavi posati, a seguire Facebook con 91mila, Amazon con 30mila e Microsoft con seimila.

Solo cinque anni fa, queste aziende del web, insieme, arrivavano a malapena al 5% delle quote di mercato nella zona dell’Atlantico del Nord, dove si ha il maggior volume di traffico essendo la via che collega l’Europa all’America, ma entro 3 o 4 anni, stante gli attuali investimenti, arriveranno al 90%.

Le grandi compagnie americane però non sono più le sole a gestire la rete dei cablaggi intercontinentali: anche in questo campo sta facendo il suo preponderante ingresso la Cina. Attraverso Huawei, Pechino sta lavorando per cercare di contrastare il monopolio americano, spesso consorziandosi anche con le stesse aziende Usa, ma attualmente si trova in difficoltà proprio a causa della politica del presidente Trump: Huawei Submarine Systems era stata messa in lista nera dall’amministrazione Usa prima di aver ceduto la propria attività nel settore ad un altro gruppo, la Hengtong, tuttavia permangono zone d’ombra sulla reale natura del passaggio di consegne tra le due aziende.

Del resto i progetti di sviluppo, come gli investimenti, sono enormi: Facebook e Google hanno in costruzione, insieme a China Mobile, il Pacific Light Cable Network che collegherà Los Angeles a Hong Kong, mentre sempre Facebook con Microsoft sono consociate per Marea, il cavo che connetterà gli Stati Uniti all’Europa attraverso due stazioni in Virginia e a Bilbao, in Spagna.

Huawei, attraverso la sua divisione Marine Network and Co, ha in essere anche il gigantesco progetto Peace, acronimo di Pakistan and Esat Africa Connecting Europe, per una rete di cablaggi che collegherà l’Asia all’Europa passando per l’Africa: una manifestazione “informatica” della Nuova Via della Seta fortemente voluta dal presidente Xi Jinping.

I cavi sottomarini: obiettivi strategici di alto valore

Appare evidente quindi come la politica dei giganti mondiali abbia nella gestione del traffico dei dati via cablaggi sottomarini uno dei suoi fulcri: è impensabile, stante la mole di dati finanziari, personali e militari che viaggia attraverso questi mezzi, che i governi delle tre grandi potenze mondiali (Usa, Russia e Cina) non abbiano in essere un qualche piano strategico che ne preveda non solo la gestione ma anche la possibilità di minarli e sabotarli in caso di conflitto.

L’attività di sabotaggio è, infatti, molto più semplice e meno dispendiosa rispetto all’attività di spionaggio come quella che vi abbiamo raccontato in apertura di articolo: la rete di cavi, sebbene sia posata mediamente a elevata profondità, è comunque vulnerabile grazie alla possibilità di venire raggiunta in modo discreto da un qualsiasi sottomarino o batiscafo e soprattutto perché la mappatura dei cablaggi è di pubblico dominio.

Alcuni analisti sostengono però, che un possibile sabotaggio ai cavi sortirebbe effetti limitati in quanto la rete può fare affidamento su una certa capacità di ridondanza data dal numero sempre crescente di collegamenti sottomarini. Questo è vero ma solo in parte: un attacco limitato, o condotto su vasta scala ma su un lungo arco di tempo, permetterebbe al “sistema” di assorbire il colpo proprio per questo motivo, ma un attacco contemporaneo su vasta scala metterebbe in ginocchio la rete di un Paese e potrebbe addirittura escluderlo dalla possibilità di contattare tempestivamente i suoi comandi più periferici o quelli dislocati in altri continenti. Se infatti venissero disposti sui cavi dei dispositivi di disturbo, o addirittura delle cariche esplosive azionabili a comando, e queste venissero poste sulla maggior parte dei cavi, o sulla totalità di cavi che, ad esempio, collegano il Nord America all’Europa, e azionate nello stesso momento, ci sarebbe il caos immediato dai due lati dell’Atlantico, con le reti aeree e satellitari che, a causa della ridotta larghezza di banda, collasserebbero in poco tempo provocando probabilmente l’isolamento dei comandi militari e il panico nei mercati finanziari.

Allo scopo non servirebbero chissà quali strumenti fantascientifici: le marine militari di Russia, Stati Uniti, e forse anche quella cinese, hanno già un servizio sottomarini particolari che, tra gli altri compiti, hanno anche quello del sabotaggio e dello spionaggio dei cablaggi sottomarini. Nell’Us Navy c’è in servizio il Jimmy Carter, della classe Seawolf, un vascello per operazioni speciali come sorveglianza, intelligence e ricognizione ed in grado di operare mini batiscafi a pilotaggio remoto (tipo Uuv) che possono anche essere utilizzati per missioni rivolte verso i cablaggi oceanici. Le operazioni del Jimmy Carter sono, ovviamente, coperte da segreto ma la dislocazione della sua base ne individua almeno l’assetto strategico/politico del suo utilizzo: Kitsap-Bremerton nello stato di Washington è la naturale localizzazione per questo tipo di unità le cui missioni sono rivolte all’area del Pacifico e dell’Estremo Oriente non dimenticando anche l’Artico, sempre più al centro di nuove contese commerciali e militari.

Nella Voenno Morskoj-flot, la Flotta Russa, esistono diverse unità in grado di operare ad elevata profondità o comunque in grado di fungere da “nave madre” per batiscafi più piccoli. Uno di questi è passato alla ribalta delle cronache recentemente a causa di un incidente mortale che ha subito durante una missione effettuata nelle acque del Mare di Barents: si tratta del sottomarino (ma date le profondità in grado di raggiungere sarebbe meglio chiamarlo batiscafo) As-12 Losharik. Il Losharik è in grado di raggiungere i seimila metri di profondità ed è inquadrato nella 29esima Brigata Autonoma della Flotta del Nord ma che dipende a sua volta dal GRU (Glavnoe Razvedyvatel’noe Upravlenie) ovvero il servizio informazioni militari russo.

Secondo le fonti ufficiali russe al momento dell’incidente l’unità stava effettuando rilevamenti batimetrici, ma la zona di operazioni era particolarmente vicina a dei cavi sottomarini che dalla Norvegia arrivano alle isole Svalbard, recentemente giunte alla ribalta delle cronache per essere al centro dell’attenzione della Nato in chiave del contenimento della Russia e del controllo di quella importante parte dell’Artico.

Appare quindi evidente come sia diventato fondamentale non solamente il controllo del mercato dei cablaggi, la gestione degli stessi, o anche l’attività di sorveglianza e spionaggio, ma soprattutto l’attività di sabotaggio e distruzione di quelli del nemico: in caso di conflitto sarebbero tra i primissimi obiettivi di un primo colpo, anche precedente ad un primo attacco nucleare.

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