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Lunedì 15 il governo giapponese ha ufficializzato la notizia che intende sospendere il dispiegamento sul proprio territorio del sistema antimissile (Abm) Aegis Ashore. Come riporta il media Nhk, il ministro della Difesa Kono Taro ha affermato che la decisione è stata presa per questioni tecniche e finanziarie.

L’Aegis Ashore è uno dei sistemi antimissile, o Abm (Anti-ballistic Missile), di fabbricazione occidentale attualmente in uso insieme al Thaad (Terminal High Altitude Area Defense), al sistema Gmd (Ground-based Midcourse Defense) ed ai vecchi Patriot della serie Pac-3. Mutuato dal sistema di combattimento navale, imbarcato sui cacciatorpediniere americani classe Arleigh Burke e sugli incrociatori classe Ticonderoga oltre a essere utilizzato nelle marine nipponica, sudcoreana, australiana, canadese, norvegese e spagnola, se utilizza i missili Rim-161 Standard Missile 3 (o SM-3) diventa un efficace strumento antimissile in grado di colpire i missili balistici nella loro fase immediatamente successiva a quella di ascesa o di spinta iniziale (in gergo anglosassone post boost phase) ovvero li intercetta quando si trovano al di fuori dell’atmosfera terrestre nella porzione mediana della loro traiettoria di volo (midcourse).

L’Aegis basato a terra utilizza gli stessi sistemi imbarcati, compresi i radar AN/SPY-1 (sebbene di una versione più avanzata) e il sistema di lancio verticale a celle (Vls) tipo Mk-41 ed in Europa è stato già schierato in due siti: uno in Romania a Deveselu sin dal 2015 e il secondo in Polonia dal 2018. Questi sistemi, per inciso, sono quelli che sono entrati nella diatriba russo-americana sul defunto Trattato Inf sui missili nucleari a raggio medio e intermedio in quanto Mosca sostiene che il sistema Vls tipo Mk 41 terrestre possa utilizzare missili da crociera con capacità nucleare Tomahawk come quello navale, sebbene nelle strutture di lancio manchino cablaggi e consolle per questa possibilità.

Nel 2017 il governo nipponico decise di dotarsi di due batterie Aegis Ashore, come parte di un progetto di rafforzare lo scudo di difesa antimissile della nazione e così alleviare il carico di lavoro imposto alle sue navi da guerra equipaggiate con il simile sistema navale: i cacciatorpediniere delle classi Kongo, Atago e dell’ultima nata Maya (anche nota come 27DDG). La decisione era stata presa, almeno apparentemente, in considerazione della crescente minaccia della Corea del Nord che si è dotata in un breve lasso di tempo di missili balistici con testata nucleare.

I sistemi avrebbero dovuto essere dispiegati in due siti, uno nella prefettura di Akita (a nord-ovest) e l’altro in quella di Yamaguchi (a sud-ovest) ed il costo totale, compreso di quello operativo e per 30 anni di manutenzione, era stimato in 450 miliardi di Yen (4,19 miliardi di dollari) di cui sono stati già spesi circa 180 miliardi, come ha riferito lo stesso ministro Kono. Le due basi Aegis Ashore avrebbero dovuto essere dichiarate operative entro il 2025, con la prima entro il 2023.

La motivazione tecnica, che poi è anche quella finanziaria, che ha portato il Giappone a riconsiderare l’acquisto dei sistemi antimissile americani è legata alla sicurezza delle aree limitrofe ai siti di lancio. Sembra infatti che Tokyo abbia richiesto una modifica sostanziale al vettore, il missile Standard SM-3, che evitasse che i suoi booster ricadessero sul territorio intorno alla base, dove vi è un’alta concentrazione di centri abitati.

Una modifica costosa, che ha fatto lievitare i costi, e che a quanto pare non è stata ancora messa a punto. Il Giappone ha infatti lavorato, insieme agli Stati Uniti, per la variante Block IIA del missile SM-3 che avrà migliori capacità di intercettare i missili balistici più pesanti e che è ancora in via di sviluppo, spendendoci circa 1,02 miliardi di dollari.

Potrebbero anche esserci state delle considerazioni di tipo ambientale ad aver determinato la scelta di sospendere momentaneamente il dispiegamento delle due batterie di Aegis Ashore. Si ritiene infatti che i potenti radar del sistema avrebbero potuto causare problemi di salute alle popolazioni limitrofe, inoltre uno dei due siti, quello di Akita, è stato scelto in base ad errori di valutazione causati da Google Earth, e pertanto si ritiene che non sia stata la scelta migliore.

Alla base di questa decisione, però, riteniamo ci sia un raffinato calcolo politico del governo Abe. Sembra infatti che Tokyo abbia colto l’attimo di defaillance di Washington, alle prese con la pandemia e con le rivolte interne, per avere una pesante moneta di scambio da giocarsi quando bisognerà discutere sul nuovo finanziamento per le truppe americane di stanza in Giappone.

Lo scorso anno, infatti, il presidente Trump avrebbe chiesto ad Abe di quadruplicare i pagamenti annuali (circa 8 miliardi di dollari a fronte dei 2 attuali) per le forze statunitensi presenti nel paese. L’attuale accordo scadrà a marzo del 2021 e i negoziati per rinnovarlo avrebbero dovuto essere già in corso, ma la pandemia ed i problemi interni negli Usa li hanno rinviati.

Non bisogna però confondere questo atteggiamento come un voler distaccarsi del Giappone dall’ombrello protettivo americano: Abe ha dato particolare priorità nella sua politica all’alleanza con gli Stati Uniti, includendo riforme per far sì che le Forze Armate nipponiche siano più capaci, flessibili e con migliori capacità di interoperare con quelle statunitensi. La decisione del 2014 di “limare” la costituzione pacifista per aumentare il grado di difesa collettiva, estendendo la possibilità di intervento armato in difesa degli alleati del Giappone, e quella del 2015 di revisionare le linee guida della difesa congiunta nippo-americana vanno proprio in questo senso.

Il Giappone poi, così facendo, può liberare delle risorse che può impiegare in altri settori considerati più essenziali per la propria difesa. Le frizioni con la Cina per quanto riguarda le dispute territoriali di lunga data che riguardano le isole Senkaku nel Mar Cinese Orientale, attualmente controllate da Tokyo ma rivendicate da Pechino, così come la situazione nell’intero scacchiere marittimo del Pacifico Occidentale, dal Mar del Giappone sino al Mar Cinese Meridionale, richiedono una difesa missilistica flessibile che può essere soddisfatta molto meglio investendo in altre unità navali dotate dello stesso sistema Aegis, come gli ultimi cacciatorpediniere classe Maya, piuttosto che in un ombrello difensivo terrestre che, secondo Tokyo, è garantito dai sistemi Patriot che lavorerebbero in coordinamento proprio con le unità navali.

Il Giappone del resto si può permettere in questo momento di giocare al rialzo essendo già legato a doppio filo a Washington dal punto di vista militare e non solo per questioni giuridiche derivanti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: il Ministero della Difesa nipponico l’anno scorso ha confermato l’ordine per 42 nuovi F-35B, portando così il totale dei velivoli che saranno in dotazione alle Jsdf (Japan Self Defense Forces) a 147 tra le versioni A e B facendone così il più grande contingente di questi caccia in dotazione ad un Paese che non siano gli Stati Uniti.

Senza considerare che proprio i sistemi difensivi antimissile nipponici sono integrati pienamente nel sistema antimissile globale americano, che va da Deveselu in Polonia, all’Alaska passando proprio dal Giappone e dalle unità navali dotate del sistema Aegis.

Anche le voci che volevano la chiusura del Faco (Final Assembly and Check Out) di Nagoya, l’unico in terra straniera insieme a quello di Cameri in Italia, per la produzione dell’F-35 sono state smentite dai fatti: la fabbrica è ancora in piena attività, che è stata fermata per breve tempo nel marzo scorso solamente dalla pandemia.

Giappone e Stati Uniti sono pertanto ancora stretti alleati, che collaborano soprattutto in funzione anticinese, e sebbene possano avere visioni diverse per quanto riguarda alcune questioni, come quella dei rapporti tra Tokyo e Seul, il supporto nipponico alla politica americana continuerà finché perdurerà lo status quo in cui esistono minacce condivise e finché il sistema giuridico che vuole il Sol Levante sottoposto a Washington non sarà cambiato internamente o esternamente, pertanto anche quest’ultima decisione non va affatto letta come un tentativo di ribellione verso l’alleato ma piuttosto esclusivamente come un modo di avere una carta da giocarsi alle prossime negoziazioni sulla divisione dei costi delle truppe americane di stanza in Giappone.

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