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Il conflitto nel Nagorno-Karabakh che ha visto contrapporsi lo scorso autunno Armenia e Azerbaigian, oltre ad aver fornito l’esempio di come condurre e vincere conflitti a bassa intensità, ed in particolare come affrontare forze armate numericamente superiori guidate da tattiche convenzionali, ha fatto scuola per quanto riguarda l’utilizzo di Uav e Ucav, ovvero i velivoli non pilotati, siano essi armati o meno.

L’ultimo esempio in questo senso ci arriva dal Donbass, e, come in Nagorno Karabakh, riguarda anche la Turchia: le forze armate ucraine hanno impiegato per la prima volta il drone armato di fabbricazione turca Bayraktar TB2 in combattimento per colpire postazioni di artiglieria che avevano sparato sul villaggio di Granitne. Il Bayraktar ucraino è riuscito a trovare, inquadrare e distruggere l’obice D-30 da 122 millimetri delle milizie separatiste filorusse a sud della cittadina di Boykivske, precedentemente nota come Telmanove.

Al momento si tratta del primo attacco che ha avuto successo stante i rapporti di un secondo, infruttuoso, che ha avuto come obiettivo dei depositi di carburante a Kirovsky, ma comunque c’è una profonda analogia con quanto avvenuto nel conflitto tra Armenia e Azerbaigian: allora gli azeri hanno fatto largo uso di Uas per colpire le postazioni fisse e le colonne corazzate dell’esercito armeno. Sotto i colpi di droni kamikaze o armati, come il Bayraktar, le forze armate armene sono stati quasi decimate: si calcola che siano andati persi circa 240 carri armati tra distrutti o catturati. La distruzione delle forze corazzate e meccanizzate armene è stata cruciale per consentire alle unità speciali azerbaigiane leggere, col supporto dell’artiglieria, di catturare i punti strategici del Nagorno Karabakh, come Shusa, ponendo quindi l’Armenia nelle condizioni di dover accettare una pace imposta (dalla Russia e dalla Turchia) che ne ha sancito la sconfitta.

A un occhio attento non sarà sfuggito il fatto che non è stata la prima volta che i droni di medio/piccole dimensioni sono stati utilizzati in questo modo: proprio Ankara ha usato gli Anka-S e i Bayraktar durante l’operazione Spring Shield nel febbraio-marzo 2020, nella regione di Idlib, in Siria. Dopo un attacco aereo siriano sulle posizioni turche, la Turchia ha usato massicciamente questi droni in una piccola campagna aerea di interdizione del campo di battaglia, utilizzante anche attacchi di artiglieria, che ha permesso di fermare l’avanzata siriana colpendo un gran numero di assetti avversari. Sempre ai droni turchi è accreditata la distruzione di due Pantsir S (Sa-22 Greyhound in codice Nato) nel nord della Siria, mentre in Libia sono stati eliminati otto o nove di questi sistemi antiaerei consegnati dagli Emirati Arabi Uniti alle truppe del maresciallo Khalifa Haftar.

Uas usati come “ariete” sul campo di battaglia, spesso al posto dell’artiglieria. Questa è forse la lezione più importante appresa dal conflitto nel Nagorno Karabakh che è stata messa in pratica successivamente: davanti a un avversario che utilizza tattiche convenzionali, anche se numericamente superiore, i droni diventano una risorsa spendibile e altamente efficace per colpire senza il timore di perdere assetti più costosi, e vite umane.

Non solo droni. Sempre in occasione di quella guerra le forze azere hanno trovato un nuovo utilizzo per velivoli obsoleti posseduti in gran numero. Stiamo parlando degli Antonov An-2 (Colt in codice Nato) trasformati in velivoli pilotati a distanza e usati in modo esteso come “esche” per attivare le difese aeree avversarie che venivano successivamente bersagliate da artiglieria, altri piccoli droni armati, o kamikaze, mettendole fuori combattimento. Questa tattica di inganno è stata particolarmente efficace, e, ancora una volta, a costo bassissimo: se non si ha a disposizione un gran numero di velivoli obsoleti, come potrebbero essere vecchi cacciabombardieri, si potrebbe sempre ricorrere a droni di medie dimensioni, oppure di piccole dimensioni ma dotati di amplificatori di risposta radar, per ottenere lo stesso risultato.

Sembra che sia esattamente la tattica su cui ha puntato anche la Cina: recentemente, come ha riferito Lorenzo Vita, decine di vecchi cacciabombardieri Shenyang J-6 (la copia cinese dei Mig-19) sono stati rimessi in servizio come droni pilotati. La Cina possiede centinaia di questi velivoli, ritirati ufficialmente nel 2010, che rappresentano quindi gli “An-2” di Pechino da usare come “specchietto per le allodole” e svelare le postazioni della difesa aerea avversaria, che verrebbe poi bersagliata da missili antiradar. Si può anche pensare che i J-6 possano essere utilizzati per portare falsi attacchi e così sorprendere l’avversario su un altro fronte. Qualcosa che, a quanto pare, era allo studio già da tempo: sappiamo che già nel 2013 Foreign Policy segnalava i caccia come “vecchi-nuovi droni killer”.

Questa modalità di attacco “da remoto”, non è di certo una novità: uno dei primi tentativi, forse il primo in assoluto nella storia, ci riguarda molto da vicino. Nella Seconda Guerra Mondiale, durante la battaglia di Mezzo Agosto, la Regia Aeronautica impiegò sperimentalmente per la prima volta un Sm-79 radioguidato che avrebbe dovuto colpire le navi del convoglio britannico. Si tratta dell’Operazione Canarino, per via del colore giallo acceso dell’aerosilurante italiano appositamente dipinto per essere più visibile. L’areo, infatti, veniva guidato via radio inizialmente da terra per essere portato in volo e successivamente da bordo di un altro aereo, un bombardiere CantZ 1007bis dotato di una seconda cloche, per indirizzarlo sul bersaglio restando a distanza di sicurezza. Qualcosa di molto più complesso rispetto ai Mistel tedeschi successivi. L’esperimento quella volta fallì per un malfunzionamento al trasmettitore del velivolo pilota, ma l’idea piacque e il progetto fu portato avanti finché l’armistizio non pose fine a ogni tipo di ulteriore sperimentazione.





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