Oggi, 24 aprile, la guerra in Ucraina compie esattamente due mesi. Un conflitto pensato in termini di operazione lampo, ricalcante Georgia 2008, e in alternativa come catalizzatore di un cambio di regime e/o di una guerra civile interetnica, perciò gli appelli di Vladimir Putin al golpe militare e all’insurrezione dei russofoni, è entrata nel suo sessantesimo giorno. Il blitzkrieg è divenuto una guerra di logoramento simil-afghana. Un’amara sorpresa per il Cremlino. Un copione divenuto realtà per la Casa Bianca. Una tragedia per il mondo intero.

Molto si è scritto e (molto) poco si è capito delle origini e delle ragioni di questa guerra, frutto avvelenato di un mix letale di miopia, revanscismo e discalculia da parte russa e di intelligenza machiavellica da parte statunitense. L’Ucraina come bocca di lupo nella quale ferire gravemente la Russia, l’Unione Europea a guida francotedesca e il movimento per il multipolarismo – nella visione di Biden. L’Ucraina come rivolta contro l’Occidente in perenne espansione e monito ai satelliti dello spazio postsovietico – nella visione di Putin.

Dalla ricalibratura al ribasso degli obiettivi di guerra ai micidiali colpi subiti dalle tenaci forze armate ucraine, passando per la guerra economica totale lanciata dal blocco occidentale, la domanda è lecita: il nuovo mondo di cui Putin ha accelerato la costruzione la notte del 24.2.22 risponde ai bisogni, ai dilemmi e agli imperativi strategici della Russia? E domani, a guerra finita, che forma assumeranno i semi piantati dal Cremlino in Ucraina?

Vittoria tattica, sconfitta strategica (per ora)

Putin avrebbe potuto essere il vero epilogatore del capitolo ucraino della terza guerra mondiale a pezzi soltanto se non avesse invaso. Perché preferendo la via delle armi alla diplomazia, in quanto accecato dal livore di una diplomazia delle cannoniere controproducente dinanzi all’intransigenza tattica del duo Biden-Blinken, è stato battuto al suo stesso gioco. E, così facendo, ha traghettato la Russia e il mondo intero verso nuove, ignote e inesplorate mete di cui già si può intravedere qualche prodromo.

A sessanta giorni dall’inizio della guerra geopoliticamente più importante di questa parte di XXI secolo, pare ormai piuttosto chiaro, la visione di Biden ha prevalso (in parte) su quella di Putin. In parte, ma non totalmente, perché non va commesso l’errore di pensare che l’Occidente rappresenti il mondo intero. E se si vuole capire la Russia, cosa che fino ad oggi soltanto in pochi hanno voluto e sono riusciti a fare, è necessario abbandonare e superare ogni prospettiva occidentalo-centrica.



La Russia, nei primi sessanta giorni di conflitto, è stata testimone di una duplice sconfitta: strategica e politica. Strategica perché è fallito il piano A – Kiev non è caduta, la presidenza Zelenskij non è stata detronizzata dagli apparati securitari e l’Ucraina ha dimostrato di (r)esistere – e questo ha obbligato il Cremlino a ripiegare su un infelicemente ridimensionato piano B: la prevedibile continuità territoriale tra Crimea e Donbas, altresì nota come Novorossija. Politica perché nello sfacelo sono definitivamente nati gli ucraini, sono stati consegnati gli europei agli Stati Uniti e sono stati piantati i semi della zizzania nelle stanze dei bottoni e nel resto dello spazio postsovietico.

In questi sessanta giorni, in breve, è accaduto che si avverasse il pronostico esposto sulle nostre colonnne all’alba della guerra: Putin invadendo, e dunque cadendo nella tagliola della presidenza Biden, avrebbe conseguito una vittoria tattica accompagnata e seguita da una sconfitta strategica. Una vittoria tattica nella maniera in cui è stato paralizzato a tempo indefinito ogni dibattito riguardante la cooperazione Ucraina-NATO e in cui è stato esteso il controllo su un territorio, la Novorossija, estremamente ricco di risorse naturali. Una sconfitta strategica, perlomeno in questo primo tempo, per una varietà di motivi:

  • Il conflitto non ha sfaldato il legame degradato tra i due fratelli coltelli d’Occidente, Europa e America, ma lo ha fortificato oltre ogni immaginazione (della Russia) e come previsto (dagli Stati Uniti): possibile allargamento dell’Alleanza Atlantica, crescita del partito dell’atlantismo radicale a scapito del partito della distensione e dell’autonomia strategica, maggiore integrazione euroatlantica nei campi economico, energetico e finanziario costruita sul “grande disaccoppiamento” tra Ue e Russia.
  • La comparsa di crepe nella cerchia del potere ruotante attorno a Putin, palesata dalla caduta di piccoli-ma-influenti re, come Vladislav Surkov, dall’inquietante moria di alti funzionari e oligarchi, ultimo in ordine di tempo Sergei Protosenya, e dal repulisti in corso tra servizi segreti e forze armate;
  • Il ritorno in auge della sempreverde russofobia nello spazio postsovietico e nelle sue immediate vicinanze, come l’insospettabile Mongolia, dove sono esplose proteste popolari a macchia d’olio, talvolta ampiamente partecipate – come in Georgia –, e dove, nonostante il silenzio delle classi dirigenti, il conflitto è stato accolto con freddezza, inquietudine, e verrà ricordato come l’equivalente contemporaneo di Ungheria 1956. Materiale al quale gli Stati Uniti potranno attingere in futuro per effettuare operazioni di disturbo, da rivoluzioni colorate a breve-ma-intense insurrezioni – Kazakistan docet.
  • La polarizzazione dell’opinione pubblica domestica, che, contrariamente a quanto vorrebbero i sondaggi, ha vissuto il conflitto parimenti a un trauma identitario. Come (di)mostrato dalle piazze in fermento sin dalla prima serata della guerra. E come (di)mostrato dai risultati dell’analisi di quegli stessi sondaggi impiegati maldestramente per dipingere un presunto picco di iper-popolarità sperimentato da Putin, che è genuino soltanto per un terzo, in quanto per una parte frutto dell’effetto “raduno attorno alla bandiera” e per l’altra è influenzato dall’età: esteso tra adulti e anziani, risibile e basso tra i giovani.

Nell’attesa del secondo tempo

Biden verrà ricordato come colui che ha immaginato e dettato questo nuovo capitolo della terza guerra mondiale a pezzi. Putin come colui che l’ha scritto sotto l’inconsapevole dettatura di Biden. Volodymyr Zelenskij come la variabile impazzita che ha trasformato un blitzkrieg in un mini-Afghanistan, contribuendo in maniera determinante a far saltare il piano A del Cremlino, e come il pioniere di un nuovo modo di fare comunicazione politica, destinato a fare scuola, che ha trascinato una esitante e divisa Ue nel pantano ucraino in qualità di co-belligerante informale.

La Russia è stata testimone con l’amaro in bocca di un primo tempo giocato seguendo il ritmo degli Stati Uniti. Impreparata in termini di fantasia, fiato e resistenza. Otterrà la tanto agognata continuità territoriale tra Crimea e Donbas, e qualcosa di più, ma ad un prezzo tanto elevato che risulterà una vittoria pirrica in assenza di rimedi: l’espansione della NATO e il rafforzamento del suo fianco orientale, l’espulsione dal vasto e succoso euromercato – punto di riferimento dei prodotti energetici russi e primo partner commerciale –, l’aumento del malcontento interno e la diffusione di diffidenza, quando non odio, nel vicinato postsovietico.



Il quadro è cupo, per certi versi drammatico – miliardi di rubli spesi, migliaia di vite sacrificate e una molteplicità di perniciose variabili da monitorare sull’altare del “Donbas allargato” –, ma per la Russia non tutto è perduto. L’operazione militare è fallita, sì, ma il Cremlino confida in quel moto di eventi che, innescato la notte del 24.2.22, dispiegherà effetti e conseguenze nel medio e lungo termine.

Putin dovrà fare attenzione alle congiure di palazzo, agli accadimenti genuini e/o telecomandati che potrebbero scuotere un estero vicino popolato da persone che si percepiscono lontane alla Russia – e che aborrano ogni scenario di sovranità limitata –, alle condizioni di salute dell’economia nazionale, ma nel suo orizzonte spaziotemporale esiste ancora spazio per un’eclatante vittoria nel futuro inoltrato. Non in Ucraina, che è perduta, quanto nel resto del mondo. E potrebbe non avere torto.

La guerra economica totale nella quale gli Stati Uniti avrebbero voluto in qualche modo coinvolgere anche i partner non occidentali, dai latinoamericani agli indiani, ha rivelato che al di fuori dell’Occidente il consenso per la Russia è esteso, radicato e a prova di pressioni diplomatiche. Eloquenti, a questo proposito, i rifiuti alla chiamata alle armi di Biden del Brasile, dell’Arabia Saudita e dell’India. La dimostrazione che il patto sino-russo per il multipolarismo gode, oramai, di sostenitori pronti a correre il rischio, ad assumersi delle responsabilità.

Similmente, per quanto possa sembrare irrilevante – anche se non lo è –, indagini basate sull’intelligence delle fonti aperte hanno appurato che la macchina propagandistica ucraina ha attecchito soltanto in Occidente e in parte dello spazio postsovietico. Perché dalla Latinoamerica all’Africa nera, passando per l’Asia meridionale, la narrativa russa ha prevalso su quella ucraino-occidentale. Quando l’antiamericanismo (e l’antioccidentalismo) è più forte di ogni solidarietà tra gli ultimi e gli oppressi. E sulle narrazioni si costruiscono politiche e si forgiano generazioni.

La Russia prenderà appunti e proverà ad alzare il tiro laddove ha intravisto, in questi sessanta giorni di guerra, dei margini di manovra. Un do ut des con gli attori-chiave e le periferie strategiche del Sud globale avente la Pax americana nel mirino e la transizione multipolare e una globalizzazione ad arcipelago come capolinea.

Biden ha vinto una battaglia fondamentale, in estrema sintesi, ma non la guerra. Guerra che, a scanso di equivoci, non è quella che sta venendo combattuta in Ucraina, ma quella in corso dai primi anni Dieci del Duemila per la riscrittura della globalizzazione e la ridistribuzione del potere tra blocchi e continenti: la terza guerra mondiale a pezzi.

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