A un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina, Kiev ha perso circa il 20% del proprio territorio nazionale a seguito dell’invasione russa cominciata il 24 febbraio 2022.
Guardando la mappa del fronte, possiamo osservare notevoli variazioni rispetto ai primi mesi di guerra: l’esercito russo dapprima si è ritirato spontaneamente dalla regione di Kiev e Chernihiv in quanto il fallito tentativo di decapitazione del governo Zelensky ha consigliato di ridimensionare l’area delle operazioni di guerra in modo da razionalizzare le – esigue – truppe impiegate; inoltre la controffensiva ucraina dell’estate scorsa ha portato alla liberazione della regione intorno a Kharkiv e a Kherson, e negli ultimi mesi l’evidenza ha dimostrato che quei settori sono rimasti più o meno inattivi, eccezion fatta per azioni di sistemi d’artiglieria o attività di bombardamento missilistico.

Come è cambiato il fronte
Il fronte ora è più corto, e parte di esso è rappresentato da quella barriera naturale data dal fiume Dnepr, che difficilmente può essere oltrepassata senza la perdita di un cospicuo numero di uomini e mezzi, entrambi preziosi per Kiev soprattutto in questa fase del conflitto. Le azioni offensive russe, lente, difficoltose, ma più o meno costanti fatto salvo alcune controffensive di alleggerimento ucraine nel Donbass settentrionale, si sviluppano lungo l’intera linea del fronte che va da Zaporizhzhia sino all’oblast di Luhansk. Prima di ipotizzare dove, in questo smisurato terreno di battaglia, potrebbe decidersi la sorte del conflitto, è bene fare alcune puntualizzazioni di tipo politico.
La questione politica per Mosca
Il Cremlino è arrivato al punto di considerare l’esito della guerra in Ucraina vitale per i propri interessi: la sola decisione di intraprendere l’invasione, nonostante 8 anni di sanzioni internazionali scaturite dalla destabilizzazione del Donbass e dall’annessione della Crimea nel 2014, è indice dell’importanza dell’azione bellica attualmente in corso. Anche dal punto di vista della politica interna, la dirigenza russa si trova nella non felice condizione di dover riuscire a concludere il conflitto in modo “onorevole” per la Russia, pena il sovvertimento dell’attuale regime, in quanto l’andamento altalenante, e financo disastroso se pensiamo a quanto successo questa estate, delle operazioni militari ha risvegliato le frange nazionaliste della politica russa, che potrebbero venire catalizzate da figure scomode ma in questo momento utili per il Cremlino come il capo del Gruppo Wagner – Evgenij Prigozhin – o il leader ceceno Ramzan Kadyrov.

Il rischio è doppio: non solo per la tenuta del potere politico attualmente a capo della Russia, ma anche per la stessa unità della Federazione: un’eventuale sconfitta militare, con conseguente ridimensionamento della potenza dell’esercito russo (strumento principe della proiezione politica della Russia nel suo intorno), potrebbe facilmente solleticare più di una velleità indipendentista di alcune repubbliche, come la stessa (un tempo) turbolenta Cecenia. Da questo punto di vista anche il CSTO (Collective Security Treaty Organization), il trattato di sicurezza collettiva che lega a Mosca le ex repubbliche sovietiche ora Paesi sovrani, è stato messo in discussione da alcuni suoi membri: dall’Armenia, che, avendo richiesto l’intervento della Russia in concomitanza con la ripresa di scontri armati con l’Azerbaigian si è vista rispondere un secco “niet” per via dell’onere bellico in Ucraina, e dal Kazakistan, che ha espresso inizialmente l’intenzione di abbandonarlo salvo poi ritrattare. Una questione di sicurezza ma anche di immagine, interna ed esterna, per la Russia che non deve essere sottovalutata in analisi di tipo meccanicistico.
I nodi della Nato
Sul fronte opposto, più che l’Ucraina la quale, per ovvi motivi, vede in gioco la sua stessa esistenza come entità autonoma, è la Nato (e partner) ad avere in gioco più di una semplice vittoria sull’orso russo: in ballo c’è infatti la questione del rispetto del diritto internazionale, soprattutto perché legato a un Paese – la Russia – dotata di un arsenale nucleare importante.
Un esito infelice del conflitto, con la sconfitta ucraina determinata dal disimpegno occidentale, porterebbe con sé la possibilità di vedere ulteriori guerre (pensiamo allo scacchiere indo-pacifico) e soprattutto una corsa agli armamenti nucleari, visti come assicurazione per il non intervento della comunità internazionale.
Siamo davanti, quindi, a un rebus di difficile soluzione che potrebbe facilmente risolversi, secondo chi scrive, in uno dei tanti conflitti congelati della periferia russa stante la scarsa probabilità che Mosca decida di impiegare l’intera sua potenza militare (incluso il ricorso al nucleare tattico) per vincere la guerra.

Dove può essere deciso il conflitto
Dopo questa lunga premessa introduttiva cerchiamo di rispondere alla domanda che dà il titolo alla nostra trattazione: dove si deciderà il conflitto in Ucraina? Tralasciando il tavolo della diplomazia, che riteniamo ancora valido e capace di trovare una soluzione di pace secondo un meccanismo di “congelamento” dello status quo ante guerra (l’unico che potrebbe essere accettato da Mosca e fatto digerire a Kiev), proviamo a dare una risposta dal punto di vista strettamente militare.
Escludendo che la Russia possa mettere in atto una vasta operazione anfibia per aggirare il fronte lungo il fiume Dnepr e puntare su Odessa e sulla Transnistria – il potenziale navale da sbarco è fortemente menomato dalla perdita di alcune navi da guerra e dall’utilizzo dei fanti di marina in operazioni terrestri – e tralasciando anche la possibilità di una nuova invasione da nord, passando anche dalla Bielorussia (non si commette lo stesso errore due volte), restano solo tre opzioni sul tavolo: un nuovo attacco sulla direttrice Kharkiv/Dnepropetrovsk, uno sforzo per completare la conquista dell’intero Donbass, infine un’avanzata da sud verso nord nel settore che va da Zaporizhzhia a Donetsk per aumentare lo spessore di quella fascia costiera che collega la Crimea al territorio della Federazione.
1 – Attacco sulla direttrice Kharkiv/Dnepropetrovsk
La prima opzione è quella meno plausibile: il territorio non è dei migliori come hanno scoperto i russi durante i primi mesi di guerra, e gli ucraini potrebbero facilmente far affluire rinforzi dall’ovest del Paese. Un’azione simile, poi, richiederebbe una lunghissima preparazione e l’impiego di un potenziale bellico tale da richiedere una mobilitazione molto più vasta, senza considerare il rischio di lasciare sguarniti altri settori dalle forze corazzate necessarie per l’operazione, essendo queste non infinite.

2 – Conquista del Donbass
Restano le altre due possibilità, che potrebbero ugualmente valere la dichiarazione del termine del conflitto. La conquista dell’intero Donbass permetterebbe al Cremlino di avere un’importante leva sul fronte interno stante la campagna propagandistica degli ultimi 8 anni. Un Donbass “messo in sicurezza”, l’aver “salvato” la popolazione russofona dai “nazisti” ucraini, potrebbe essere sufficiente per gli scopi del Cremlino.

3 – L’avanzata nel settore tra Zaporizhzhia-Donetsk
In secondo piano, ma non così lontano dagli stessi schemi di ragionamento, c’è la conquista dell’intero oblast di Zaporizhzhia: come già detto, allargherebbe la fascia costiera occupata rendendo sicure le linee di comunicazione con la Crimea, e potenzialmente potrebbe portare anche al ritiro delle forze ucraine da parte dell’oblast di Donetsk.

Si tratta solo di ipotesi, che potrebbero verificarsi solo con un importante sforzo bellico complessivo da parte della Russia, che dovrebbe comprendere anche la conversione di parte della sua economia da una civile a una di guerra: in questo momento Mosca non ha le risorse per effettuare operazioni di ampio respiro, e forse non ne ha nemmeno l’intenzione in quanto il conflitto di attrito che si è stabilito le permette di erodere lentamente il potenziale bellico ucraino stante le difficoltà incontrate da Kiev a ottenere armamenti pesanti e a lungo raggio dagli alleati occidentali o anche solo il munizionamento per la propria artiglieria.