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Fino al 7 aprile scorso, Douma era la roccaforte dell’Esercito dell’islam, il gruppo jihadista sostenuto e finanziato dall’Arabia Saudita. Era qui che, tramite una vasta rete di tunnel, si pianificavano gli attacchi contro Damasco. Era da qui che, tramite cartine e coordinate precise, si lanciavano i missili contro la capitale.

Nella prigione al Tawoba a Douma, i ribelli tenevano in ostaggio 4mila governativi, tra cui molte donne e bambini. L’accordo tra Esercito dell’islam e Damasco prevedeva la loro liberazione. Nella capitale siriana era stato allestito tutto per il loro ritorno. Padri e madri di famiglia si sono riversati in strada, nel punto in cui sarebbero dovuti arrivare gli autobus, per riabbracciare i propri figli. Delle oltre 4mila persone che sarebbero dovute arrivare, solo 200 hanno fatto ritorno. Probabilmente chi non ce l’ha fatta è morto mentre scavava i tunnel che congiungevano le città ribelli oppure è stato usato come scudo umano. Le immagini delle famiglie alawite messe nelle gabbie proprio dall’Esercito dell’islam nella Ghouta orientale hanno indignato il mondo.

Douma, come molte aree piegate dalla guerra, è ormai una città fantasma. I bombardamenti sono stati pesantissimi. Secondo quanto fanno sapere fonti governative, sarebbe stata inoltre trovata una fossa comune contenente almeno trenta cadaveri.

La ricostruzione sarà difficile. In questi giorni i soldati governativi hanno portato bene di prima necessità per alleviare la fame e la sofferenza degli abitanti di Douma. Ma c’è un’altra sfida che attende Damasco: riconquistare i cuori e le menti di chi è rimasto.

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