A una settimana dalla rivolta dei manifestanti anti-israeliani che hanno preso d’assalto il terminal di Makhachakala in Daghestan, il caso sembra essere già stato derubricato a episodio. Da Mosca si persevera nell’accusa contro l’Occidente, presunto reo di orchestrare disordini, profittando della crisi in Medio Oriente per minare la Russia alle prese con l’Ucraina. “Dall’estero si sostengono gli ebrei d’Israele e, in Russia, cercando di organizzare pogrom contro gli ebrei”, ha denunciato Vladimir Putin, accusando forze straniere, inclusa l’Ucraina, di aver acceso la miccia, sui social, dei disordini dell’aeroporto di Mahackala. Nonostante le accuse, tuttavia, i tribunali russi hanno condannato a brevi pene detentive i quindici rivoltosi anti-israeliani: pene comprese tra i due e i dieci giorni di carcere per il loro coinvolgimento nella rivolta, secondo quanto riportato dai media statali. Ad altre due persone è stato ordinato di completare 60 ore di lavori forzati, secondo la Tass. Una modesta geremiade, se comparata ai toni che le autorità russe hanno utilizzato per definire l’assalto in Daghestan.

Lo strano atteggiamento di Kadyrov sul Daghestan

A rendere ancor più grottesco il panorama delle vicenda nella repubblica caucasica, i toni di un altro uomo alla periferia dell’Impero: Ramzan Kadyrov. Il macellaio di Grozny ha ordinato alla polizia di sparare sui manifestanti per scoraggiare attacchi antisemiti come quelli avvenuti in Daghestan. Lo scrive Ria Novosti, aggiungendo che, secondo le disposizioni di Kadyrov, chiunque prenderà parte a tali manifestazioni sarà arrestato. Kadyrov ha anche ordinato alla polizia di sparare prima colpi di avvertimento in aria per disperdere i partecipanti alle rivolte illegali. “Se i rivoltosi continuano a disobbedire alla legge, la polizia potrebbe sparare per uccidere”, ha aggiunto. Sebbene le violenze non si siano verificate in territorio ceceno, ad osservatori più attenti le “premure” di Kadyrov sembrano eccessive per un leader noto per i suoi metodi brutali ma soprattutto per aver imposto la shari’a nel suo Paese. “La tragedia del popolo palestinese” e “il terrore di massa” portato avanti da Israele non giustificano le violenze all’aeroporto della repubblica russa del Daghestan”, aveva perfino scritto su Telegram lo stesso Kadyrov.

L’oscuro legame tra Cecenia e Daghestan

Come tutto il Caucaso ex sovietico, c’è un filo tutt’altro che sottile che collega Daghestan e Cecenia, al di là delle apparenze. Il Daghestan, dagli anni Novanta, è stato terra di conflitto tra sufismo e i salafiti-wahabiti legati alla Cecenia. La popolazione del Daghestan è a maggioranza musulmana (circa l’85%), sunnita di tradizione sufi. Nel 1999, un’insurrezione scatenata dagli islamisti della Cecenia, tentò di destabilizzarne gli equilibri, scatenando un lungo periodo di instabilità e di violenze: un conflitto nel quale i cittadini daghestani combatterono in prima linea per resistere al progetto islamista di Grozny. Un gesto inatteso che fece tirare un sospiro di sollievo allo stesso Putin, terrorizzato dalla possibile svolta islamista.

Il 1 ottobre di quello stesso anno iniziava per Mosca la seconda guerra cecena. Nel 2007 il leader ceceno Doku Umarov, desideroso di instaurare la shari’a nel Caucaso settentrionale, si rese protagonista della creazione dell’Emirato del Caucaso, vicino ad Al Qaeda. Nel 2014, l’uomo, considerato come il nemico giurato della Russia, venne ucciso dalle forze russe alle prese con altissime smanie di sicurezza in vista dei Giochi olimpici invernali di Sochi. Le organizzazioni islamiste in loco, dunque, si presentano nell’era globale come fedeli all’idea di un Daghestan completamente indipendente ma fedele alla shari’a. Sullo sfondo di questi oscure intrecci giunge l’Isis, desiderosa di fare del Daghestan il suo centro operativo, dichiaratamente a dispetto della Cecenia.

Le mire di Putin e la resistenza del Daghestan

Nel 2017 il presidente russo scelse un suo protetto, Vladimir Aboluaievitch Vassiliev, per cercare di mettere in riga il Paese alle prese con la corruzione e il terrorismo islamico. Vassiliev fu il primo capo della Repubblica dal 1948 a non essere nè musulmano (bensì ortodosso) né proveniente delle principali etnie del Daghestan (kazako). Nel 2020 Vassiliev si dimise per ragioni di salute per lasciare il posto a Sergey Melikov.

A differenza della Cecenia, il Daghestan non ha mai espresso la volontà di separarsi della Russia, in particolare a causa della grande diversità etnica e linguistica. Per Putin rappresenta un’area strategica, in particolare la base navale di Kaspiisk, una delle più importanti della Russia nel Mar Caspio. Nonostante le brame putiniane, il Daghestan ha mostrato sacche importanti di resistenza ai dettami di Mosca: nel settembre del 2022, la mobilitazione parziale annunciata da Putin nell’ambito della guerra in Ucraina scatenò violenti scontri tra manifestanti e poliziotti nella capitale Mahackala e in altre località.

Cui prodest?

La domanda, dunque, sorge spontanea: come è possibile che un territorio legato al sufismo, che ha resistito all’assalto dell’islamismo e alle aggressioni cecene, si riscopre antisemita, scatenando addirittura la “caccia all’ebreo”? Chi ha davvero interesse a destabilizzare, oggi, il Daghestan e a far credere che il sia caduto nelle mani degli estremisti che mai erano riusciti a fare breccia? E che significato ha il tono insolitamente conciliante di Kadyrov? Lui, l’uomo senza mezze misure che, tuttavia, è sul libro paga di Putin. Il rocambolesco blitz a Mahackala appare più che altro come un piccolo mal riuscito tentativo di far credere qualcosa a qualcuno nell’intricato mélange tra la guerra in Ucraina e l’escalation in Medio Oriente. Un piccolo, apparentemente insignificante episodio, sintomo dei riallineamenti che si stanno verificando nel Caucaso ex-sovietico (e islamico) attorno ai tumulti geopolitici degli ultimi due anni.

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