Il 7 agosto 2019 ricorre il ventesimo anniversario dello scoppio della guerra in Daghestan nell’estate del 1999; un conflitto breve ma intenso nel quale i cittadini daghestani scesero in prima linea contro l’invasione dei jihadisti della “Brigata Islamica Internazionale” provenienti dalla vicina Cecenia. L’intento era chiaro, aggredire il Daghestan, repubblica multi-etnica e multi-religiosa nonchè la più grande del Caucaso settentrionale, per destabilizzare tutta l’area in nome di quel progetto islamista che prevedeva l’insediamento di un Emirato di stampo wahhabita.
I jihadisti sapevano bene che finchè il Daghestan restava in condizioni di stabilità il loro progetto non avrebbe potuto essere realizzato e potevano contare sul sostegno di alcuni attori mediorientali, legati all’islamismo radicale, che avevano tutto l’interesse ad infiltrare il Caucaso settentrionale e a rimpiazzare l’Islam autoctono di stampo sufi, con l’ideologia ikhwanita e wahhabita.
L’offensiva islamista in Caucaso settentrionale implicava inoltre una destabilizzazione dei territori meridionali della Federazione Russa, aspetto che non dispiaceva affatto a quelle potenze occidentali che avevano tutto l’interesse a indebolire ulteriormente Mosca dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
La risposta del popolo daghestano colse però tutti di sorpresa e il suo ruolo, soprattutto inizialmente, nell’opporsi all’invasione jihadista, risultò essenziale per la conseguente sconfitta dell’internazionale islamista, grazie anche al successivo intervento dell’esercito russo.
Come recentemente affermato dal presidente russo Vladimir Putin: “Se i terroristi fossero riusciti a portare a termine i loro progetti in Daghestan, sarebbe stato un grosso problema per il Caucaso del nord e per la Russia tutta. Sono molto riconoscente al Daghestan e ai daghestani per quanto fatto allora e per quanto continuano a fare oggi”.
Lo scoppio del conflitto e la resistenza daghestana
Le avvisaglie di un possible allargamento del conflitto dalla Cecenia (dove era già in corso dal 1996) al Daghestan erano già evidenti nell’aprile del 1999, quando Bagauddin Magomedov, “emiro” della “Jamaat islamica del Daghestan” invocava dal territorio ceceno, dove si era rifugiato due anni prima, il jihad per liberare il Daghestan e tutto il Caucaso dalla presenza russa. Il 4 agosto successivo, tre giorni prima dell’invasione, alcuni uomini del Ministero degli Interni russo rimanevano uccisi in un’imboscata messa in atto da alcuni uomini di Magomedov a ridosso del confine tra Cecenia e Daghestan.
Il 7 agosto la “Brigata Islamica Internazionale”,composta da circa 2mila jihadisti ceceni, arabi, nordafricani, turchi (molti dei quali veterani di Bosnia e Afghanistan) e comandata dal saudita Ibn al- Khattab e dal separatista ceceno Shamil Basayev, si mobilitava varcando il confine e occupando i distretti di Tsumadi e Botlikh; altre formazioni islamiste raggiungevano poi le zone di Novolaksk e Buynaksk.
Il 10 agosto Basayev annunciava la nascita dello “Stato Islamico del Daghestan” e chiamava la popolazione alla rivolta contro i “miscredenti” che governavano Makhachkala e contro gli “occupanti russi”.
Le aspettative di Basayev e Ibn al-Khattab erano però destinate a non realizzarsi e anzi, non solo la popolazione non li accolse come liberatori, ma si schierò contro, organizzando milizie spontanee contro quegli invasori che venivano visti come forestieri ed estremisti portatori di un Islam che nulla aveva a che spartire con quello autoctono.
A Buynaksk ad esempio poche centinaia di residenti male armati ma ben organizzati e con ottima conoscenza del territorio riuscivano a respingere gli attacchi dei jihadisti, mentre a Tsumadin, nella parte meridionale del Daghestan, un gruppo formato da agenti di polizia, militari e miliziani riuscivano a difendere il centro rurale di Agvali, di particolare importanza strategica.
L’intervento militare russo e la Seconda Guerra cecena
La sorprendente resistenza delle milizie daghestane dava a Mosca il tempo necessario per organizzare un massiccio intervento militare, guidato dal colonnello Viktor Kazantsev, che iniziava con un pesante bombardamento messo in atto dall’aviazione e dall’artiglieria con l’obiettivo di colpire le formazioni jihadiste e rendere impraticabili le vie di rifornimento.
In una successiva fase, mentre le divisioni meccanizzate russe e truppe Omon daghestane prendevano il controllo del territorio e delle vie di transito, piccole unità leggere composte da Spetsnaz e paracadutisti (Vdv) venivano inviate sulle montagne per compiere operazioni di contro-terrorismo ai danni dei jihadisti.
Il 23 agosto i jihadisti si ritiravano dalla zona di Bothlik mentre l’aviazione russa bombardava le zone di Serzhen-Yurt, Benoy, Kenkhie, Vedensko Ushelie. Il 29 agosto veniva lanciata una serie di operazioni di terra nella zona di Kadar, in particolare nei villaggi di Karamakhi, Kada e Chabanmakhi, con l’utilizzo di truppe del Ministero degli Interni (Mvd).
Nella notte tra il 4 e il 5 settembre i jihadisti mettevano in atto una nuova offensiva nel distretto di Novolak, arrivando a pochi chilometri dalla città di Khasavyurt prima di venire colpiti dai bombardamenti russi. Il 13 settembre 1999 gli ultimi jihadisti della “Brigata Internazionale” venivano respinti e fuggivano in territorio ceceno mentre l’allora primo ministro Vladimir Putin annunciava un blocco su tutto il perimetro del confine ceceno per evitare sconfinamenti di terroristi. Nel contempo però l’aviazione russa aveva già iniziato una serie di bombardamenti contro i jihadisti in territorio ceceno colpendo i distretti di Vedeno, Nozhai-Yurt e Gudermes, ma anche la periferia di Grozny.
Tra il 4 e il 16 settembre però una serie di attentati perpetrati contro alcuni complessi residenziali abitati da civili e militari della Guardia di Confine a Mosca, Volgodonsk e nella città daghestana di Buynaksk causavano la morte di più di 300 persone. L’attentato veniva a attribuito ai jihadisti facenti base in Cecenia; tra i nomi indicati dalla Commissione d’inchiesta figuravano Achemez Gochiyayev, Ibn al-Khattab e Muhammad bin Said al-Buainain “Abu Omar” (questi ultimi due entrambi uccisi durante il Secondo conflitto ceceno). Sia Ibn Khattab che Basayev negarono ogni responsabilità, ma di fatto gli attentati di settembre furono per il Cremlino la goccia che fece traboccare il vaso e il 1° di ottobre del 1999 le truppe russe varcavano il confine dando il via alla Seconda Guerra di Cecenia. Nel 2003 la Corte Suprema russa metteva inoltre al bando l’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani, accusata di aver fornito sostegno ai jihadisti di Ibn al-Khattab, attivi in Cecenia.
Il Daghestan oggi
Il breve conflitto daghestano, oltre all’eroica resistenza della popolazione scesa in trincea con quanto a disposizione per respingere i meglio armati jihadisti, ha dimostrato che l’ideologia dell’odio non avrebbe fatto breccia nella Repubblica e che la popolazione era pronta a salvaguardare la propria identità contro attori esterni.
Negli anni a seguire il Daghestan veniva sistematicamente preso di mira da un islamismo radicale di stampo wahhabita che si infiltrava e faceva breccia tra i giovani disagiati, spesso legati a bande criminali dando vita a un fenomeno tipicamente locale che vedeva il convergere di banditismo e jihadismo.
Numerosi giovani daghestani cadevano vittime della propaganda jihadista e si univano a bande che si nascondevano nelle foreste e tra le montagne per poi sferrare attacchi in zone abitate contro civili, forze di sicurezza ed esponenti dell’Islam autoctono di stampo sufi.
I fautori della propaganda wahhabita cercavano simpatizzanti in varie moschee radicali e se agli inizi degli anni 2000 il piano dava alcuni frutti, le autorità russe e daghestane riuscivano progressivamente a porre sotto controllo i luoghi di culto facendo tra l’altro chiudere quelle ong e associazioni caritatevoli sospettate di legami con l’islamismo radicale. Nel contempo le autorità di Makhachkala implementavano una serie di iniziative per presentare ai giovani il pericolo recato dai propagandisti di odio mentre gli esponenti della comunità islamica locale illustravano loro la corretta interpretazione della religione, ben lontana dalla visione oltranzista e intollerante divulgata da estremisti e jihadisti.
L’Islam daghestano è da secoli tradizionalmente legato al Sufismo, con presenza di diverse confraternite tra cui la Naqshbandiyya, la Qadiriyya e la Shazaliyya; un Sufismo violentemente osteggiato dagli estremisti in tutto il mondo islamico, dal Nord Africa al Pakistan. Non a caso il 28 agosto 2012 un’attentatrice suicida (successivamente identificata come Amina Kurbanova) si intrufolava nell’abitazione di Shaykh Afandi al-Chirkawi, leader sufi molto amato e venerato in Daghestan , particolarmente attivo nel dialogo interreligioso, e si faceva esplodere, uccidendolo sul colpo.
Shaykh Afandi era una figura scomoda per chi voleva imporre un’unica visione dogmatica, estrema e settaria che mal si coniuga in un contesto come quello daghestano. Colpire il leader sufi significava colpire l’Islam autoctono, il dialogo e le istituzioni.
L’omicidio di Shaykh Afandi non faceva però altro che generare orrore e ulteriore rigetto della popolazione nei confronti dell’estremismo di stampo wahhabita. Negli anni successivi al 2012 una campagna terroristica sistematicamente perpetrata contro obiettivi civili, ma in particolare contro le forze di sicurezza, portava il Daghestan al centro di un violento scontro con i jihadisti.
Una strategia tipica delle “bande” jihadiste era quella delle imboscate nei confronti di pattuglie della polizia e membri delle forze di sicurezza. La controffensiva coordinata da Mosca e Makhachkala dava però i suoi frutti e in pochi anni il jihadismo daghestano veniva pesantemente ridimensionato, al punto che secondo statistiche ufficiali per l’anno 2018 veniva registrato un calo dell’11% delle vittime del conflitto armato rispetto all’anno precedente. Dal gennaio al dicembre veniva segnalato un solo attentato, 27 jihadisti uccisi, 3 appartenenti alle forze di sicurezza e 5 civili. Il numero di attacchi risultava inoltre in decremento del 29% rispetto al 2017. Per quanto riguarda il 2019, da inizio anno sono stati registrati 4 decessi, tutti di jihadisti e tre feriti di cui due appartenenti alle forze di sicurezza e un civile. Cifre notevoli per una Repubblica che fino a pochi anni fa registrava dati ben più allarmanti.
Un segnale chiaro, le misure preventive contro il fenomeno della radicalizzazione e la strategia di contro-terrorismo messe in atto da Mosca e Makhachkala hanno dato e continuano a dare i loro frutti e il radicalismo di stampo islamista in Daghestan non fa breccia.