Sembra che Washington abbia deciso di abbandonare definitivamente i peshmerga curdi, che ora dovranno fronteggiare la minaccia turca, dopo essersi dimostrati fedeli alleati nella lotta per sconfiggere l’Isis in Siria e nel nord dell’Iraq. I soldati curdi, previo il supporto e forse le promesse degli occidentali, si sono sempre dimostrati pronti a svolgere i compiti più critici e delicati nel conflitto che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno condotto in quel Medio Oriente minacciato dai jihadisti di Al Baghdadi; ma adesso il comportamento ambiguo della Casa Bianca dimostra come Washington sia pronta a trascurare il suo vecchio e valoroso alleato per favorire un Paese che ha più influenza sulla scena mondiale: la Turchia.

Mentre Recep Tayyip Erdogan lancia la sua offensiva sulla “zona cuscinetto” con il bene stare, o quanto meno l’assenza di obiezioni da parte del presidente Donald Trump – che nei giorni scorsi aveva accennato (maldestramente) al ritiro (smentito) delle truppe americane dalla Siria – sorge spontaneo domandarsi se il “problema” non sia stato creato proprio dagli Stati Uniti, che prima supportavano apertamente i curdi decisi a conquistare la loro autonomia, e adesso vogliono sfilarsi, abbandonando al loro destino il popolo curdo della Siria.

Dove un tempo sventolavano le bandiere nere del Califfato islamico, i combattenti curdi delle divisioni peshmerga si sono fatti strada – nel sangue e nel sudore – per imporsi e rendere sia la regione autonoma irachena del Kurdistan che la Federazione democratica della Siria del Nord, più nota come Rojava, delle isole felici per il loro popolo finalmente al sicuro. Un popolo che però oggi è di nuovo minacciato – almeno sul fronte siriano – dall’operazione “Sorgente di pace” lanciata dai turchi. Un’offensiva che il presidente turco Erdogan ha ordinato con l’obiettivo di conquistare il territorio cuscinetto tra la Turchia e la Siria, al fine di far insediare i profughi della guerra civile siriana e per indebolire i curdi dell’Ypg che mantengono da sempre stretti rapporti con il Pkk: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan che è considerato alla stregua di un’organizzazione paramilitare terroristica da Ankara.

Negli ultimi anni i funzionari e i generali dei Peshmerga hanno sempre decritto i territori controllati dai curdi come “isole” che avevano iniziato a beneficiare di una buona stabilita, nonostante rimanessero al centro di una regione afflitta da estremismo e settarismo, e confidavano, una volta sconfitto definitivamente lo Stato islamico per mandato della Coalizione internazionale, nel supporto di Washington per una portare a termine una “grande riunificazione” del Kurdistan. Ora però con il “tradimento” degli americani, che hanno sempre finanziato, appoggiato e addestrato i curdi durante la loro offensiva, il sogno del Kurdistan siriano sempre destinato a svanire, come quello di un’unificazione. L’abbandono di fronte alla Turchia che vuole creare un “corridoio” della “pace”, e che potrebbe invece rivelarsi soltanto una strategia per indebolire i curdi, preoccupa le Nazioni Unite e rimette ogni speranza al solo monito lanciato dal Tycoon; che mentre i primi elicotteri d’assalto turchi bersagliavano le posizioni tenute dell’Ypg, ha twittato: “Come ho già detto in precedenza, giusto per ribadirlo, se la Turchia fa qualcosa che io, nella mia grande e ineguagliabile saggezza, considero oltre i limiti, distruggerò completamente e annienterò l’economia della Turchia (l’ho già fatto in passato!)”.

L'avanzata turca nel nord della Siria (Alberto Bellotto)
L’avanzata turca nel nord della Siria (Alberto Bellotto)

In precedenza, il presidente Trump aveva fatto sapere che era arrivato il “momento di sfilarci (per gli Usa) da ridicole guerre senza fine, molte delle quali tribali, e di riportare i nostri soldati a casa”, e anche se il messaggio che paventava una grossa ritirata è stato immediatamente “ricalibrato” con informazioni più precise che citavano la sola ridistribuzione per motivi di “sicurezza” di un distaccamento di 50-100 uomini delle forze speciali in altre basi, è bastata a lasciar intendere ai curdi che sarebbero stati soli e senza nessuno a “osservare” l’avanzata dell’esercito di Erdogan. La mancanza di una vera interposizione da parte di quelli che potrebbero essere già considerati dai curdi come i loro ex-alleati occidentali, lascia mano libera al Sultano, che nonostante i suoi rapporti tesi con Trump per via della questione missilistica russa, sembra aver trovare una quadra con l’establishment della Nato che preferisce lasciare la Siria in balia di un nuovo miro-conflitto che potrebbe vedere coinvolte forze sponsorizzate dall’Iran, scontri tra forse regolari siriane e ribelli anti Assad, e addirittura il ritorno dell’Isis lì dove aveva perso terreno fino ad asserragliarsi in minuscole enclaves.

I curdi sotto lo scacco di Ankara

Gli uomini e le donne che devono prepararsi all’offensiva turca, e che hanno già dichiarato di volere: “Difendere il loro territorio fino alla morte”, sono i combattenti curdi-siriani dell’Unità di Protezione Popolare (più nota con l’acronimo di Ypg): una milizia che opera nelle regioni a maggioranza curda nel nord della Siria, e che a fianco delle Syrian Democratic Forces hanno combattuto contro l’Isis che aveva occupato tutto il territorio che correva da Kobane in Siria a Erbil in Iraq. Questa ala armata del Partito dell’Unione Democratica Curda della Siria, che come i loro “fratelli” della regione autonoma del Kurdistan ha sempre cercato un’autonomia per i curdi siriani, ha beneficiato dell’alleanza degli Stati Uniti da quando il Pentagono ha ritenuto “opportuno” armare, finanziare e supportare dal 2015 tutte le forze democratiche siriane per combattere lo Stato islamico all’interno del territorio siriano caduto sotto le mani dei jihadisti. Nel maggio del 2017 gli Stati Uniti iniziarono ad armare direttamente le forze curde, reputandole “necessarie per riconquistare il quartier generale siriano di Raqqa nello Stato islamico”. Fu allora che i curdi, onorato il loro impegno sia in Iraq che in Siria, iniziarono a materializzare il sogno di un’autonomia sotto l’egida di Washington: un sogno che adesso Erdogan può distruggere mentre è in uno stato pre-embrionale.