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Era la notte tra il 6 e il 7 agosto del 2014 quando i jihadisti dell’Isis invasero la Piana di Ninive, in Iraq. Il terrore avanzava veloce
. Casa dopo casa. Villaggio dopo villaggio. Oltre 120mila cristiani dovettero fuggire in poche ore, portando con sé  niente di più dei vestiti che avevano indosso. Nonostante siano passati tre anni, l’orrore di quei giorni è ancora vivo negli occhi di suor Silvia. La voce di questa giovane religiosa originaria di Alqosh, che incontriamo nella sede romana della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, è ferma, ma le sue mani non smettono di tremare quando la mente torna a quelle ore di terrore e di angoscia.

In fuga dai tagliagole

Il primo di agosto quasi tutti i cristiani di Telekef, a nord di Mosul, erano già fuggiti. Nel villaggio dove si trovava la scuola gestita dalle suore Domenicane di Santa Caterina, oltre al sacerdote e al diacono, erano rimaste soltanto suor Silvia e le sue consorelle. Fuori infuriava la battaglia. Gli uomini dell’Isis stavano tentando di conquistare una fabbrica di medicinali per curare i propri soldati. A resistere all’assalto c’erano i peshmerga curdi. “Hanno iniziato a sparare alle dieci di sera e sono andati avanti fino alle quattro del mattino – racconta la suora – a mezzanotte il parroco è venuto da noi in convento e ci ha invitato a seguirlo in chiesa”, così, aveva detto il sacerdote, “quando entreranno per ucciderci, moriremo tutti insieme”. Le suore decidono di rimanere in convento, ma, alle sei del mattino, gli scontri riprendono. La madre superiora, a quel punto, decide di mettere in salvo prima le suore più anziane, poi le altre consorelle. Si trasferiscono ad Alqosh, dove restano per sei giorni. Qui, il cinque di agosto il diacono viene ucciso. Il proiettile che lo centra, in realtà, “era destinato al prete”. “A quel punto abbiamo celebrato il funerale e siamo scappati”, continua la religiosa. “Erano le 23 quando siamo fuggiti, nel buio, tra i colpi di arma da fuoco- racconta, ancora scioccata – loro hanno invaso la Piana alle tre del mattino”. “La cosa che ricordo in maniera più chiara di quei momenti”, ci confessa, “è la paura, la paura che ci prendessero”. “Avevamo paura di morire – sussurra – non volevamo morire in mezzo a quella violenza”.  

Un convento da ricostruire

Le suore si rifugiano nel Kurdistan iracheno. Qui, nei campi profughi di Erbil e Duhok, si mettono subito a disposizione dei rifugiati. Grazie al contributo di Aiuto alla Chiesa che Soffre mettono in piedi due scuole, ad Ankawa, dove oggi studiano seicento bimbi cristiani, e a Duhok, dove siedono, uno accanto all’altro, ragazzi cristiani, musulmani e yazidi. Ora che i villaggi della Piana sono stati liberati, le suore vorrebbero far ritorno nel loro convento a Qaraqosh. Ma le sfide sono tante, a partire da quella della ricostruzione. Alcune città, infatti, come Batnaya, sono state completamente rase al suolo. “La nostra chiesa è stata profanata e data alle fiamme, e il nostro convento distrutto”, mormora la religiosa. “I jihadisti hanno gettato a terra il Santissimo Sacramento, hanno distrutto l’altare e il crocifisso, poi hanno portato un’autobomba vicino all’ingresso e l’hanno fatta esplodere”, prosegue suor Silvia. Del convento, ora, restano soltanto macerie. Ma gli integralisti islamici non hanno raggiunto il loro obiettivo. “A Ninive ci sono le radici del cristianesimo iracheno”, rivendica con orgoglio questa piccola suora che conosce la lingua di Gesù, “sono riusciti ad allontanarci per tre anni, ma ora stiamo tornando”.

 

La sfida della sicurezza

Più di trecento nuclei familiari hanno già fatto ritorno a Qaraqosh, che prima di essere invasa dai jihadisti ospitava 30mila famiglie cristiane. E nelle prossime settimane anche sei consorelle di suor Silvia torneranno in quella che, una volta, era la principale città cristiana dell’Iraq. Resta però un altro nodo da sciogliere, quello della sicurezza.

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Il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno, in programma il prossimo 25 settembre, di cui il premier iracheno Haider al-Abadi ha chiesto la sospensione, rischia, infatti, di destabilizzare ulteriormente l’area. “Telekef non è stata ancora liberata e quattro giorni fa è caduto un missile su Batnaya”, ci dice suor Silvia. Chi protegge, allora, i cristiani che vogliono tornare a casa propria? “Il Signore”, risponde la religiosa. E poi, i “nostri ragazzi”. I miliziani cristiani e i soldati sciiti che combattono nelle file dell’esercito. “In centinaia hanno dato la vita per liberare i nostri paesi e rimettere il crocifisso sopra le nostre chiese, perché ci riconoscono parte integrante del popolo iracheno”, afferma con un filo di voce.

Il futuro oltre il terrorismo

Non tutte le consorelle di suor Silvia, però, ce l’hanno fatta. Da quella notte di agosto, 24 tra le religiose più anziane sono morte nel sonno. Diciannove di loro, soltanto tra il 2014 e il 2015. Il loro cuore non ha retto. Troppo dolore, troppa paura, troppo orrore, troppa barbarie. Ora, però, le suore vogliono guardare al futuro. I terroristi non ci sono più e il convento delle Domenicane di Santa Caterina da Siena verrà ricostruito, grazie all’impegno di Acs-Italia e del Comitato per la Ricostruzione di Ninive, istituito su iniziativa delle chiese locali, caldea, siro-cattolica e siro-ortodossa. Un nuovo passo in avanti, questo, verso un traguardo ben più ambizioso: quello di riportare a casa i 95mila sfollati cristiani che ancora vivono da rifugiati nel Kurdistan iracheno.

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