Benjamin Netanyahu ordina degli attacchi contro Gaza e Damasco per uccidere due uomini designati come “nemici di Israele”, dalla Striscia iniziano a piovere razzi, mentre l’esercito israeliano risponde con nuovi raid contro l’enclave palestinese provocando la morte di quasi 30 civili. Una storia già sentita, che si ripete sempre uguale da anni, se non fosse per un particolare: l’obiettivo di Israele questa volta non era Hamas, bensì la Jihad islamica. A perdere la vita infatti è stato Baha Abu al Ata, uno dei comandanti più importanti del gruppo radicale, noto per essere dietro a diversi lanci di missili contro Israele e accusato di star progettando un nuovo attacco ai danni dello Stato ebraico. La situazione nella Striscia è ritornata alla normalità – se normale può essere la vita nell’enclave – il 14 novembre, dopo l’annuncio del cassate il fuoco raggiunto grazie alla mediazione dell’Egitto. Ma cosa è successo negli ultimi giorni e quali sono le posizioni e gli obiettivi dei diversi attori in campo?
Hamas resta a guardare
A sorprendere è stata soprattutto la posizione assunta da Hamas, l’organizzazione nata nel 1987 come ramo dei Fratelli Musulmani a seguito della Prima Intifada e che controlla la Striscia dal 2007. In realtà la presa di distanza del gruppo guidato da Yahya Sinwar ha dei precisi obiettivi, soprattutto in vista delle elezioni convocate per il prossimo anno da Muhammed Abbas, leader dell’Olp e diretto contendente di Hamas come guida dei palestinesi. Le relazioni tra l’organizzazione e Israele sono sempre stati tesi, soprattutto se si considera che il gruppo si è sempre presentato come strenuo nonché unico vero oppositore dello Stato ebraico e delle sue politiche di oppressione nei confronti dei palestinesi. A queste posizioni, Israele ha reagito con embarghi, blocchi delle frontiere (grazie anche alla collaborazione dell’Egitto), raid contro la Striscia e continue limitazioni alla zona di pesca palestinese, solo per fare alcuni esempi.
Tutto ciò ha ovviamente danneggiato l’economia della Striscia e messo in ginocchio la popolazione, che inizia a manifestare sempre più spesso segni d’insofferenza nei confronti di una vita diventata insostenibile. Per far fronte al malcontento, Sinwar dal 2018 ha in parte cambiato strategia, puntando sulle manifestazioni lungo il confine e non reagendo con particolare enfasi alla distruzione dei tunnel, da sempre utili per far passare merci e persone dentro e fuori dalla Striscia. In cambio, Hamas ha ottenuto un flusso abbastanza costante di denaro dal Qatar e, secondo alcuni analisti, ha evitato una nuova invasione militare della Striscia. Il gruppo quindi ha preferito non unirsi al lancio di razzi contro Israele, pur avendo condannato i raid israeliani contro la Jihad islamica e contro la Striscia, per puro interesse politico. Una nuova escalation che porti anche la sua firma non avrebbe alcun vantaggio politico, ma anzi rischierebbe di alienargli ulteriori consensi.
Cosa vuole la Jihad islamica
D’altro canto la posizione di Hamas sembra fare il gioco della Jihad islamica, che può presentarsi ai gazawi come unica forza in grado di tener testa a Israele. O almeno di provarci. Il gruppo radicale è da sempre in lotta con Hamas per la supremazia politica su Gaza: nato a fine degli anni Settanta come derivazione del Jihad islamico egiziano, non ha visto di buon occhio la nascita di Hamas ed è stato presto surclassato da quest’ultimo. Il lancio di missili contro Israele quindi non deve essere letto solo come una risposta all’uccisione del suo leader, ma in un contesto politico più ampio. La Jihad vuole rafforzare la sua posizione tra la popolazione e sottrarre ad Hamas il ruolo di leader della Striscia attaccando il nemico per antonomasia, lo Stato ebraico. Il gruppo radicale però non è abbastanza forte per potersi permettere una guerra con Israele, motivo per cui ha dovuto accettare un cessate il fuoco che ha comunque presentato come una vittoria. Questa ultima escalation inoltre è servita alla Jihad islamica per guadagnare potere agli occhi dell’Egitto, con cui da mesi sono in corso trattative terminate però con un nulla di fatto. La Jihad mira infatti a sedersi al tavolo con Il Cairo da una posizione di maggior forza.
Gli obiettivi di Israele
Israele dal suo canto ha prima di tutto eliminato un uomo, Baha Abu al Ata, che come detto era considerato una minaccia per il Paese, infliggendo un duro colpo alla Jihad islamica. Ma non è tutto. Con questi ultimi raid ha minato ulteriormente i rapporti tra il gruppo radicale e Hamas, che non ha preso parte al lancio di razzi partiti dalla Striscia in risposta agli attacchi israeliani. Una divisione che fa il gioco dello Stato ebraico, che avrebbe tutto da perdere in un’alleanza tra le due fazioni che si contendono Gaza. Il mantenimento dello status quo quindi è fondamentale per Israele. A ciò si aggiunge anche un ritorno politico per Benjamin Netanyahu in un momento di grande debolezza del suo potere e del Likud: dopo mesi, il Paese è ancora senza un Governo e Bibi mira a un nuovo mandato come primo ministro con il sostegno di Benny Gantz, che vedrebbe bene come ministro della Difesa. In questo contesto, raid mirati e attacchi contro la Striscia rientrano in una strategia di aumento del gradimento tra la popolazione che in passato ha dato spesso i suoi frutti, per quanto rischia sempre di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Lo Stato ebraico però, con l’uccisione di Baha Abu al Ata ha mandato anche un chiaro messaggio all’Iran, che secondo molti supporta attivamente la Jihad islamica tramite Hezbollah. Non a caso Israele ha anche distrutto l’abitazione di Damasco di Mentre Ajuri, indicato da Teheran come vice del nuovo capo del gruppo, Ziad Nakhla.