La Russia sta vincendo o sta perdendo in Ucraina? Questa domanda circola dai primi giorni del conflitto e continua a essere il fulcro di molti commenti, ma la risposta è estremamente difficile da dare. Soprattutto perché dobbiamo scindere il piano tattico da quello strategico. E una vittoria militare non significa necessariamente una vittoria politica di lungo termine, così come una sconfitta.

Dal punto di vista esclusivamente bellico, possiamo iniziare a tracciare alcune linee. La cosiddetta “operazione militare speciale” di Vladimir Putin, infatti, è una guerra di cui sappiamo apparentemente tutto nei minimi dettagli, ne conosciamo le cronache, gli orrori, e abbiamo interi sistemi di intelligence che forniscono un quadro costante e un flusso di dati enorme rispetto agli altri conflitti. Ma proprio questa pioggia continua e immediata di notizie, commenti, annunci e informazioni rischia di oscurare il quadro di insieme. Per farlo, bisogna cercare di unire i puntini, scorrere le cronache e guardare una mappa, più o meno immaginaria. E forse solo così è possibile capire davvero la strategia che ha caratterizzato l’impegno militare russo dall’inizio del conflitto, quel 24 febbraio 2022 che ha cambiato il mondo.

Se riavvolgiamo il nastro, è possibile avere delle indicazioni più o meno chiare di quanto avvenuto e di cosa potrebbe esserci stato nella mente dei comandi russi. L’inizio dell’operazione speciale si è concretizzato in un conflitto generalizzato tra assalto a est, invasione da nord, attacchi da sud con le truppe russe che hanno puntato prima l’area della centrale nucleare di Chernobyl, poi direttamente Kiev. L’assedio con le truppe aviotrasportate all’aeroporto di Hostomel, circa di chilometri a nordest della capitale, è stato respinto in un bagno di sangue. Nel frattempo, e missili colpivano indistintamente tutte le basi e le infrastrutture strategiche ucraine. La guerra sembrava un assalto totale all’Ucraina con la volontà di dare un colpo talmente forte al governo ucraino da poter completare la guerra in poche settimane, se non addirittura giorni.

In molti hanno pensato che Mosca avesse in mente una tipica guerra-lampo: un assalto di massa contro un Paese più debole per andare direttamente a distruggere i centri di comando e controllo, abbattere tutte le infrastrutture militari, e rovesciare il governo, magari imponendo un esecutivo-fantoccio. Tuttavia questo tipo di guerra è sembrato essere da subito più una potenziale alternativa data dalle contingenze che un vero e unico piano di azione dei russi. L’esercito del Cremlino, infatti, si è mosso su diversi fronti. E se gli obiettivi militari possono variare a seconda delle esigenze tattiche, sono gli obiettivi politici, come spiega la dottrina sovietica, a suggerire quale sia la vera conduzione della guerra.

Questo lo si comprende soprattutto se si uniscono le cosiddette due “fasi” della guerra immaginata e comunicata da Putin e dal suo staff. All’inizio c’è stata una cosiddetta “fase uno” in cui sembrava che la guerra dovesse svolgersi in modo martellante e unitario su tutto il territorio ucraino. Tanto è vero che addirittura qualche osservatore parlava di occupazione o di invasione generale (ipotesi numericamente irrealizzabili). Ed era una guerra che, stando alle cronache e alle immagini, la Russia stava di fatto perdendo. Lento, obsoleto e accusato di diversi crimini, l’esercito di Mosca appariva allo sbando, diviso su una linea di fronte enorme e il cui simbolo era diventato quella colonna di decine di chilometri che assediava Kiev senza vincere battaglie fondamentali e alla mercé della resistenza e dei droni ucraini.

Successivamente, con l’avvio dell’altra fase, la cosiddetto numero due, la strategia del Cremlino è cambiata ed è cambiata completamente anche la percezione da parte delle intelligence occidentali, confermando invece un piano d’azione che è apparso da subito più coerente e metodico. Qualche osservatore ha parlato di una fase “uno” come di enorme diversivo per distrarre le truppe ucraine dai principali obiettivi della guerra. Difficile dare una valutazione completa, perché il fallimento di alcune operazioni non può essere derubricato a sacrificio accettato a priori. L’enorme quantità di mezzi dispersa, le migliaia di soldati caduti, feriti o imprigionati dai russi, i generali uccisi, il cambio di comandanti, la devastazione su aree che dovrebbero essere controllate da nuove realtà alleate di Mosca, dimostrano che l’avanzata russa è stata fallimentare almeno in una prima fase. O quantomeno non foriera di veri risultati convincenti nemmeno per Putin. E la resistenza ucraina, unita al supporto Nato, ha confermato che il Cremlino non avesse ben chiaro cosa ostacolava la ricostruzione dell'”impero”.

Tuttavia, nel Donbass e a nord della Crimea, le truppe russe sono avanzate lente ma inesorabili. La Flotta del Mar Nero è rimasta ferita da alcuni colpi che hanno minato la superiorità aerea e navale sull’area, costringendo le navi a tenersi ben lontane dalle costa ucraina per l’arrivo di missili e per le mine. Ma questo non ha evitato che il Mar Nero settentrionale sia diventato sostanzialmente un dominio russo. Le conquiste di Kherson, Mariupol, di diversi centri delle autoproclamate repubbliche popolari a est, la presa definitiva dell’isola dei Serpenti e l’assedio di Severodonetsk hanno mostrato una realtà più complessa: la macchina russa è riuscita a scardinare la linea di difesa ucraina, conquistando tutti i centri nevralgici che sono considerati le vittorie essenziali per Mosca. Il minimo indispensabile per ottenere la vittoria “politica”, non certo una vittoria su tutta la linea, per il momento. Assicurare il Mar d’Azov, blindare la regione di Donetsk, allargarsi a nord della Crimea conquistando le fonti di approvvigionamento idrico sono in questo momento gli obiettivi minimi, raggiunti però con un enorme dispendio di energie, di uomini, di denaro e con un prezzo politico altissimo. Resta però il dato che, mentre l’Ucraina è stata privata di queste regioni, la realtà della “Novorossija” appare sempre meno ipotetica. Con le uniche eccezioni di Odessa e Mykolayiv che restano ancora nelle mani di Kiev in attesa di capire fin dove si spingerà Putin e fin dove può resistere l’esercito ucraino pur con tutto il supporto dato dall’Occidente.