Alle domande che si sommano sulla scelta del presidente russo Vladimir Putin di scatenare la guerra contro l’Ucraina, ce n’è una che viene spesso formulata: perché ora?

Le tempistiche, in una decisione come quella di iniziare la “operazione militare speciale”, come la chiama il Cremlino, sono molto importanti. E fanno capire forse meglio di altro come la scelta di spedire uomini e mezzi al di là del confine ucraino non possa essere dipesa da quella che tanti analisti e osservatori identificano come una presunta “follia” di Putin. Troppo facile, verrebbe da dire, pensare che un conflitto di questa portata possa essere deciso dal carattere turbolento di un leader o dagli effetti di una cura. Troppo facile perché significa nascondere una realtà che in questi anni era ben visibile e non è mai stata messa in discussione davvero da nessuno.

Per primo proprio da Putin, che sono ormai anni che continua a ripetere – pur con delle differenze sostanziali – i messaggi che ha poi lanciato nella fase finale dell’escalation e subito dopo l’inizio delle operazioni. E in questo periodo ha visto una grossa finestra di opportunità, oppure, a detta di alcuni analisti, è caduto in una trappola travestita da occasione d’oro.

Le giustificazioni storiche note da tempo

L’unità del popolo russo e ucraino, per esempio, non è affatto un tema nato con la decisione di riconoscere le autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Luhanks. In un articolo di luglio del 2021, Putin scriveva che “il muro emerso negli ultimi anni tra Russia e Ucraina, tra le parti di quello che è essenzialmente lo stesso spazio storico e spirituale, a mio avviso è la nostra grande disgrazia e tragedia comune”.

Non solo, nel testo è anche ripercorsa tutta la storia che portato alla divisione tra Kiev e Mosca visibile ai giorni nostri, con gli stessi passaggi interpretativi ribaditi a febbraio. Nessuna differenza nella concezione della storia. A conferma che l’aumento del livello di tensione non è un qualcosa di improvviso o di improvvisato. Qualche mese prima, a maggio, il presidente russo, in videoconferenza con i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, disse che l’Ucraina era stata “lentamente ma sicuramente trasformata in una sorta di antipode della Russia, una sorta di anti-Russia“. Parole che saranno riprese poi in quell’articolo in cui sentenziava sull’unità dei destini tra i due Paesi e che di fatto ha dato il via alle grandi manovre per ottenere con l’invasione quanto agognato da tempo.

L’Ucraina sempre più protesa verso ovest

Un’analisi di Foreign Policy segnala il progressivo aumento della collaborazione militare tra Stati Uniti e Ucraina e, in generale, tra la Nato e il Paese europeo

Dal 2016, pur non facendo parte dell’Alleanza, Kiev ha ha partecipato a diversi programmi di riarmo sostenuti da Washington e Bruxelles. E a questo si è aggiunto anche l’accordo tra Ucraina e Turchia per la fornitura dei droni Bayraktar TB2: elementi che si sono rivelati fondamentali nel corso delle prime due settimane di guerra proprio per colpire i convogli militari russi diretti verso le città ucraine.

Le scelte (del tutto legittime) di Kiev hanno iniziato nel tempo a essere considerate delle vere e proprie minacce strategiche da parte di Mosca, al punto che, spiega Foreign Policy, i funzionari del Cremlino hanno interpretato questi sviluppi come “una tendenza considerata pericolosa per la sicurezza della Russia e minacciosa per l’equilibrio di sicurezza nella regione”.

Problemi che sono apparsi sempre più evidenti nel momento in cui Regno Unito e Stati Uniti, proprio per il timore che la Russia invadesse l’Ucraina, hanno deciso di aumentare il rifornimento di armi e sistemi alle forze armate di Kiev in modo che scongiurassero l’aggressione da parte delle truppe di Putin. Un deterrente che non è servito a evitare la guerra, ma che invece si è dimostrato particolarmente utile nel frenare l’avanza russa.

Un fattore militare cui deve unirsi anche quello politico, dato in particolare dal progressivo aumento di interesse da parte dell’opinione pubblica ucraina verso l’appartenenza all’Unione Europea e all’Alleanza Atlantica e, in senso invece più specifico, nella incapacità da parte di tutte le forze di rispettare gli Accordi di Minsk sul Donbass. Accordi che erano di fatto l’unico modo per mantenere lo status quo ma che non sono mai apparsi forieri di un vero cambiamento politico in Ucraina, tantomeno nella sua parte orientale.

La grande paura di Putin

L’Ucraina, di fatto, stava per essere persa. E questo per Putin è diventato inaccettabile. Un presidente che afferma, in modo abbastanza cristallino, che aver diviso quel Paese dalla Russia è stato un tragico errore, conferma che non c’è mai stata l’idea di slegare i destini di Kiev da quelli di Mosca. Ma anzi, tutto questo ha solo rafforzato la mente di Putin sul fatto che non potesse più rimanere fermo mentre uno Stato che considerava storicamente satellite decideva autonomamente la via dell’Occidente. Una scelta sovrana che nelle stanze del Cremlino è stata tradotta come arbitraria e pericolosa. Inaccettabile, specialmente per un uomo che aveva fatto capire di volere a ogni costo mantenere l’influenza sull’Ucraina e in particolare sul Mar Nero (Crimea docet). E che non voleva essere ricordato come colui che al potere per un ventennio aveva visto sfuggire dalla sfera russa non soli i Paesi baltici, ma anche l’Ucraina, il cuore dei Rus e “terra di confine”.

Se l’Ucraina era considerata ormai “persa” – cosa che per Putin già bastava per considerarla un problema impellente – sono poi subentrate delle condizioni in Occidente e non solo che hanno reso possibile l’intervento russo. O meglio, che hanno fatto credere al presidente russo di poter intervenire militarmente in Ucraina senza eccessive difficoltà. Convinzioni che si sono rivelate sbagliate, almeno fino a questo momento.

L’Occidente appariva debole e diviso

Dal punto di vista politico, l’Occidente arrivato a questo 2022 come un blocco ormai estremamente fragile. Il presidente Usa Joe Biden ripeteva di volere compattare la Nato contro i nemici strategici, ovvero Cina e Russia, e di volere costruito un “blocco delle democrazie”. Ma sotto i richiami americani covava il disastro afghano e l’interesse europeo per l’autonomia strategia dell’Unione.

L’Europa sembrava unita ideologicamente con gli Stati Uniti, ma senza esserne convinta. La Russia non è un avversario identico per tutti gli Stati membri dell’Europa e della Nato, e mentre qualcuno ricorda un passato recente sotto l’occupazione sovietica, altri consideravano Mosca un nemico ormai sulla carta, se non per vecchi richiami della Guerra Fredda.

Una divisione cui si aggiungeva (e rimane tuttora) un’ulteriore spaccatura legata al tema energetico. La Russia vende gas all’Europa e non tutti i Paesi dell’Unione hanno la stessa dipendenza dall’oro blu di Mosca. Qualcuno ne importa in quantità limitate, altri, come Italia e Germania, sono clienti molto importanti. E questo vale anche per il petrolio russo. Differenza che si sono poi rivelate effettive anche quando hanno cominciato a piovere le sanzioni sul Cremlino, ma che già erano chiare prima, quando i prezzi iniziavano a salire e in tanti frenavano sulle ipotesi di sganciarsi dalla potenza russa.

L’Europa sembrava quindi da un lato divisa al suo interno, ma dall’altro lato anche in grado di muoversi in maniera autonoma rispetto agli Usa anche grazie al lavoro del presidente francese Emmanuel Macron e del cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Il primo alla ricerca della leadership europea in concomitanza con le elezioni presidenziali. Il secondo, figlio di quella Ostpolitik tedesca che aveva fatto sì che fosse lo stesso cancelliere, direttamente, ad assumere il dossier russo escludendo il ministro degli Esteri.

Biden e i dubbi sull’America

A questo dinamismo europeo faceva seguito anche la debolezza dimostrata dall’amministrazione Biden negli Stati Uniti, che fino a febbraio appariva quasi impalpabile agli occhi del mondo. Biden si era presentato dando del “killer” a Putin, poi lo aveva incontrato e sembrava che i due presidenti avessero raggiunto una prima forma di convivenza. Inoltre, Washington appariva molto più interessata al problema Taiwan, e quindi alla Cina. Mentre la presa sull’Europa appariva indebolita insieme al disinteresse strategico.

Dall’altra parte del confine dell’Estremo Oriente, invece, la Repubblica popolare cinese sembrava avere in qualche modo blindato le casse russe con accordi sul settore energetico e non solo, confermando una strana amicizia tra Mosca e Pechino che il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha definito “solida come una roccia”.

La Russia aveva provato a investire nella debolezza occidentale e nel sostegno orientale pretendendo quelle “garanzie di sicurezza” manifestate da Sergei Lavrov e Putin e che si erano dimostrate irricevibili da parte di Nato e Unione Europea. Un ultimo tentativo per testare la volontà di Washington e degli alleati e che aveva confermato l’assenza di margini su alcune richieste di Mosca.

La concomitanza di questi fattori interni ed esterni all’Ucraina, unita alla non meno importante debolezza della presidenza russa – forse anche data da una salute di Putin che appare meno solida rispetto a quanto si potesse pensare – hanno probabilmente avuto la meglio sulle ritrosie di molti dell’establishment russo. In tanti, anche tra i fedelissimi dello “zar”, si sono mostrati molto freddi rispetto all’ipotesi bellica. E diversi sono stati ammoniti o esautorati proprio per avere espresso dubbi sulla guerra a Kiev.

La guerra ha le sue stagioni

Infine, un problema apparentemente secondario rispetto alle logiche politiche ma fondamentale per quelle tattiche: il clima. La guerra, specialmente quella combattuta come sta facendo l’esercito russo, deve essere fatta in tempi certi e in stagioni precise. Non si può combattere sempre, anche se la tecnologia aiuta nel limitare gli effetti delle condizioni meteorologiche. Il tempo è tiranno anche per iniziare una guerra, non solo per finirla.

Molti esperti avevano già sottolineato come la guerra in Ucraina non potesse essere troppo in là rispetto alla stagione invernale. Gli uomini impegnati nelle numerose esercitazioni al confine bielorusso e russo erano lì da troppe settimane e la linea di rifornimento già dava segni di cedimento, non essendo programmata (anche per non destare sospetti) per grossi periodi. Inoltre, il freddo non è sempre uguale e un terreno come quello ucraino può trasformarsi in una trappola nel momento in cui la neve si scioglie e cede il passo al fango. Abbiamo visto spesso, in questi giorni di guerra, mezzi russi impantanati o abbandonati perché ormai inamovibili. Come scrivevamo a gennaio, “una volta superato febbraio, è possibile che il Paese sia soggetto a quella che viene chiamata la rasputitsa, cioè lo scioglimento di ghiaccio e neve sul terreno e sulle strade che rende impraticabili le rotte rurali e molto più difficoltoso il trasporto su strada”. Un incubo per tutti gli eserciti che hanno attraversato l’Ucraina. Come quello russo.