Pochi giorni fa, Corea del Nord ha lanciato un nuovo missile intercontinentale (ICBM) dopo quasi 3 mesi di “silenzio”. Il missile, secondo le prime designazioni, sarebbe uno Hwasong-15, implementazione dell’altro missile con capacità intercontinentale lanciato dal regime – il KN-20 o “Hwasong-14” lanciato a fine luglio – ma questo nuovo vettore, a quanto risulta dai calcoli balistici, è in grado di colpire anche la costa orientale degli Stati Uniti, e quindi potenzialmente di essere una minaccia mondiale.
Il missile infatti è caduto a 950 km dal punto di lancio ma ha percorso una traiettoria altissima – apogeo a 4.475 km di altezza – cosa che lo classifica come il primo capace effettivamente di colpire quasi ogni punto del globo grazie ad una gittata massima stimata di circa 13mila km.
Già lunedì, parlando delle preoccupazioni russe in merito alla questione coreana, avevamo sottolineato come questo “silenzio” di Pyongyang potesse essere foriero di un nuovo lancio – o test atomico – in relazione soprattutto all’elevazione di nuove e più strangolanti sanzioni economiche. Ora che anche la Cina sembra, almeno di facciata, molto meno accondiscendente con il suo scomodo alleato – Pechino in risposta alle richieste della Casa Bianca di “dissuadere ed impedire a terze parti di intrattenere certe attività con la Corea del Nord” ha tagliato ulteriormente le linee di comunicazione col suo vicino meridionale – Pyongyang potrebbe trovarsi sempre più isolata rispetto al passato e quindi vedersi, se ci concedete il termine, “con l’acqua alla gola”.
Va detto che la strategia cinese è sempre stata molto ambigua sulla questione: Pechino non ha alcun interesse a prendere decisioni drastiche dal punto di vista diplomatico e culturalmente mette in pratica quella filosofia che contraddistingue la sua politica estera forse da millenni. Questa filosofia, soprannominata della “fetta di salame” prevede che si ottengano risultati diplomatici attraverso piccole ma costanti azioni – anche militari come avviene per il Mar Cinese Meridionale – ma senza che nessuna di esse rappresenti da sola un possibile “casus belli” o comunque possa generare una violenta reazione dall’altra parte. Un atteggiamento che non è corretto definire prudente, vista la finalità con cui Pechino porta avanti la sua politica estera, bensì ondivago, ambiguo perfino subdolo almeno secondo il metro occidentale: da un lato ferma condanna dei test missilistici, dall’altro non appoggia il piano sanzionatorio Usa invocando le Nazioni Unite; se Pechino “chiude i ponti” con Pyongyang – letteralmente – non cessa comunque di fornire know how e mezzi per il suo sviluppo militare unitamente ad altri Paesi recentemente ritornati nella lista nera di Washington come l’Iran.
Cosa succederà ora?
Fare previsioni in geopolitica è quasi impossibile – e pertanto da evitare – però si possono analizzare i dati e cercare di dare dei possibili scenari di come una situazione possa evolversi a seconda delle varie situazioni che di volta in volta possono, mutevolmente, palesarsi.
Abbiamo già detto più volte che lo scenario dell’accettazione di una pax russo-cinese è quasi del tutto irrealizzabile.
Gli Stati Uniti, se dovessero accettare il piano di pace di Mosca e Pechino, oltre a perdere la faccia con i propri alleati nell’area estremo orientale e asiatica – siano essi vecchi come il Giappone o nuovi come l’India – sostanzialmente ammetterebbero la propria incapacità strategica consegnando l’intero settore del globo alla definitiva influenza cinese (e russa in second’ordine). In questo momento storico questo è semplicemente inaccettabile dato che l’asse economico e geostrategico si è definitivamente spostato dall’Europa all’Asia e le spese, vertiginose, per la Difesa dei Paesi dell’Estremo Oriente sono lì a dimostrarlo. Ulteriore dimostrazione sono i dati relativi alla quantità di merci che passa da quei mari. Per fare un esempio in questo senso ricordiamo che il 25% del traffico mercantile globale passa dallo stretto della Malacca sito tra Indonesia e Malesia, e che il solo Mar Cinese Meridionale si vede attraversato da 5mila miliardi di dollari l’anno di merci. Il controllo di quella parte di mondo, ed in particolare proprio dei mari oggetto di diverse contese internazionali, diventa quindi vitale.
Attenersi alle sole risoluzioni dell’Onu in merito alle sanzioni non eviterà che la Corea del Nord continui, magari a rilento, il suo processo di armamento missilistico ed atomico: nonostante i due lanci di ICBM siano stati coronati dal successo, è ancora molto probabile che Pyongyang non abbia ancora conseguito le adeguate capacità di miniaturizzazione delle testate che la metterebbero in grado di montare una testata atomica su un vettore in grado effettivamente di colpire tutti gli Stati Uniti continentali. Inoltre anche la precisione e la capacità del veicolo di rientro del missile di sopravvivere al calore dell’ingresso in atmosfera sono ancora tutte da stabilire. In questo senso la cooperazione tra Corea del Nord ed Iran diventa fondamentale, anche per quanto concerne la possibilità di acquisire capacità MRV o MIRV.
La via del dialogo pertanto sembra quella, ad oggi, meno efficace per abbassare la tensione, dato che è evidente ormai a tutti che, con questo regime, Pyongyang non rinuncerà mai all’armamento atomico, visto come l’unica polizza assicurativa efficace contro possibili invasioni occidentali o putsch eterodiretti.
Perché bisogna considerare anche questa possibilità: ovvero che una potenza straniera – non necessariamente gli Stati Uniti, leggasi Cina – possa decidere di eliminare fisicamente Kim Jong-un ed i suoi accoliti per cambiare in modo “indolore” il regime e sostituire l’attuale leader nordcoreano con qualcuno di più “malleabile”. La questione dell’omicidio del fratellastro di Kim in Malesia ha infatti scoperto un vaso di Pandora che ha suscitato notevoli imbarazzi a Pechino, che è stata chiamata in causa come possibile regista per un eventuale cambio di regime a Pyongyang che vedeva proprio Kim Jong-nam, poi ucciso da agenti nordcoreani, come candidato migliore per la successione al vertice della Corea del Nord. La Cina quindi potrebbe non aver del tutto rinunciato a questa ipotesi, che sulla carta potrebbe essere la migliore, anche se permangono delle criticità non da poco: la catena di comando e la stessa filosofia strategica nordcoreana permettono – in caso di grave crisi – ai comandanti locali di procedere autonomamente con un attacco di ritorsione. Il caso peggiore che si potrebbe profilare, quindi, è che un Generale fedelissimo di Kim Jong-un, avuta la certezza di un cambio di regime tramite putsch, decida di attaccare quella che egli ritiene sia la nazione artefice dello stesso, ed in questo caso non sarebbe necessariamente la Cina. Se una tale eventualità dovesse concretizzarsi con un attacco missilistico alla Corea del Sud o al Giappone le conseguenze sarebbero facilmente prevedibili: una escalation che porterebbe all’utilizzo delle armi atomiche.
Attacco atomico che sarebbe il peggiore degli scenari possibili anche qualora si decidesse di procedere ad una invasione del Paese. La dialettica di Washington, che in questi mesi è stata a dir poco colorita, sembra infatti cambiata e si è fatta più seria con quest’ultimo test e soprattutto non ha rinunciato a sottolineare come ancora “tutte le opzioni siano sul tavolo”.
Un attacco preventivo, che, per forza di cose data la natura del territorio e la dispersione delle Forze Armate Nordcoreane, dovrebbe contemplare l’utilizzo di armamento atomico tattico, risulterebbe il peggiore degli scenari possibili appunto per quanto sin qui sostenuto dalla Cina che reagirebbe ad una simile evenienza venendo in aiuto di Pyongyang e quindi verosimilmente porterebbe il mondo verso un olocausto nucleare.
Che fare?
Oggettivamente non esiste una panacea di ogni male, ma la politica è l’arte del possibile. A nostro modesto giudizio per disinnescare la crisi occorrerebbe una seria trattativa con tutte le parti in causa in modo da assicurare alla Corea del Nord la continuità del regime e dell’esistenza stessa dello Stato ottenendone parallelamente il parziale disarmo eliminando cioè tutti i vettori missilistici a raggio medio, intermedio e intercontinentale. In questo modo gli Stati Uniti sarebbero al riparo da ogni possibile attacco e potrebbero garantire una parziale copertura ABM anche ad alleati come il Giappone che sarebbe comunque sotto il tiro degli SRBM nordcoreani in alcune parti del suo territorio. Per la Corea del Sud andrebbe invece garantita una copertura antimissile “full” ma nel contempo limitando di molto la scala e la frequenza delle esercitazioni militari, un po’ sulla falsa riga del piano russo-cinese. Cina che dovrebbe pertanto impegnarsi attivamente e farsi garante del disarmo atomico di Pyongyang. Oggettivamente in questo momento questa possibile via d’uscita ci sembra irrealizzabile: in primis perché la crisi giova sia alla Cina sia agli Usa che hanno così modo di mantenere nell’area un elevato numero di asset militari per poter controllare i traffici commerciali e soprattutto cercare di ottenerne il monopolio, secondariamente perché un accordo del genere dovrebbe prima passare da un’effettiva pacificazione tra le due Coree – formalmente sono ancora in stato di guerra essendo in vigore solo un armistizio – cosa che obiettivamente ci risulta impossibile, anche considerando che, storicamente, trattati simili valgono solo in funzione dei vantaggi che ne ottengono le parti in un particolare frangente e che quindi, quando le circostanze che hanno portato alla ratificazione di un trattato mutano, essi diventano carta straccia.