Dopo dieci giorni di fermo, gli Stati Uniti hanno ripreso le operazioni contro lo Stato Islamico in Iraq. A riferirlo, alcuni funzionari americani, secondo i quali presto ricominceranno anche i programmi di addestramento delle forze irachene nel Paese, in merito ai quali rimarrebbero da definire alcuni dettagli sul miglioramento delle condizioni di sicurezza per i soldati americani.

L’escalation tra Iraq e Usa

La missione americana in Iraq era stata interrotta il 5 gennaio, in seguito al lancio, da parte statunitense, di una serie di raid all’interno del territorio nazionale iracheno, mirati a colpire le forze iraniane presenti nel Paese e culminati nell’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani (3 gennaio). Una violazione della sovranità nazionale, secondo il Parlamento iracheno, che si era subito riunito (5 gennaio) per decretare l’espulsione delle circa 5 mila truppe statunitensi di stanza in Iraq.

Considerata la ferma risposta di Baghdad in merito alla missione americana nel Paese, dunque, rimane da chiarire quale sia la posizione del governo iracheno sugli ultimi avvenimenti. Lunedì scorso (13 gennaio), il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha rivelato che, a differenza di quanto dichiarato pubblicamente, i leader iracheni sarebbero favorevoli al proseguo della missione Usa nel Paese.

Dunque, una posizione più sfumata da parte dell’Iraq, confermata anche dalle recenti dichiarazioni del primo ministro, Abdel Mahdi. Lo stesso giorno in cui è trapelata la notizia della ripresa delle operazioni americane nel Paese (15 gennaio), in occasione di una riunione di Gabinetto, il premier iracheno ha definito la decisione del Parlamento “non vincolante”, raddrizzando il tiro dopo aver, in un primo momento, chiesto a Washington di preparare una road map per il ritiro delle proprie truppe dal Paese.

Il nemico comune

“Se decideremo di espellere le forze dall’Iraq, sarà una decisione del governo iracheno”, ha dichiarato Mahdi, aggiungendo che, in tal caso, sarà fondamentale valutare la tempistica del ritiro delle truppe Usa, considerando che lo Stato Islamico “ha già iniziato a riorganizzarsi e a progettare invasioni e attacchi”.

In effetti, l’espulsione delle truppe americane dall’Iraq non richiederebbe soltanto una votazione del Parlamento, ma anche l’annullamento degli accordi conclusi dai governi iracheno e statunitense. Ritirandosi dal patto, inoltre, Baghdad rinuncerebbe ai programmi di addestramento e assistenza forniti dagli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico e le sue forze sarebbero costrette a combattere da sole, prive della copertura aerea.

La persistente minaccia rappresentata dallo Stato Islamico sarebbe anche il motivo per il quale, nei giorni scorsi, il segretario di Stato americano si è opposto alla decisione del Parlamento iracheno, respingendo la richiesta di Mahdi di concordare una road map per il ritiro delle truppe americane di stanza in Iraq.

Già riorganizzatosi nella Siria sud-orientale e nell’Iraq occidentale, lo Stato Islamico potrebbe sfruttare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti per realizzare un duplice obiettivo: riguadagnare terreno e ottenere maggiore consenso tra i suoi seguaci. Il ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq, infatti, potrebbe essere strumentalizzato da Daesh e trasformato in una nuova propaganda, che vedrebbe nell’espulsione delle truppe americane dall’Iraq la vittoria della causa jihadista.

La strategia iraniana

In questo complesso mosaico, resta un ultimo tassello di cui tener conto: la risposta dell’Iran. Se la notizia della ripresa delle operazioni americane in Iraq venisse confermata ufficialmente, si tratterebbe di un duro colpo per Teheran. Da tempo, infatti, la Repubblica Islamica sta lavorando per allontanare le truppe americane dalla regione, allo scopo di colmare il vacuum lasciato dagli Usa ed espandere la sua influenza in Medio Oriente.

Un copione già realizzato in Siria. Qui, negli scorsi anni, Teheran è riuscita nel suo intento, contribuendo a marginalizzare gli Stati Uniti e assumendo un ruolo di primo piano nel processo di pace del Paese, al fianco di Turchia e Russia. In Iraq, il raid che ha ucciso Soleimani e la dura risposta di Baghdad sembravano aver facilitato il compito di Teheran. Almeno prima che trapelasse la notizia della ripresa delle operazioni statunitensi nel Paese.

Una battuta d’arresto, dunque, ma non la fine dei giochi, dal momento che Teheran starebbe lavorando assiduamente alla realizzazione di questo obiettivo, non solo a livello militare, ma anche attraverso la cooperazione con i suoi alleati regionali.





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