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L’Artico ribolle, e non per questioni legate al cambiamento climatico sebbene questo abbia una parte non secondaria in quanto sta accadendo alle più alte latitudini del globo.

Proprio la minore presenza dei ghiacci perenni sui mari a ridosso del Circolo Polare ha innescato un meccanismo per il quale i Paesi che vi si affacciano – e non solo – stanno guardando con maggiore interesse alla possibilità di sfruttare le risorse minerarie ivi presenti e alle possibilità date dall’apertura di nuove linee di comunicazione marittima, che porta con sé la costruzione di nuove infrastrutture e quindi la necessità di difenderle.

La difesa dei confini artici però non è l’unico punto nelle agende di quelle nazioni che condividono confini marittimi e terrestri in quella regione inospitale: meno ghiaccio sui mari, o comunque meno spesso, significa poter avere proiezione lungo una direttrice (quella diretta e passante per il Polo Nord) sino ad ora preclusa. Meno ghiaccio, come accennato, significa anche apertura di nuove rivendicazioni territoriali: la Russia, da tempo, ha in essere un contenzioso con gli altri Paesi artici riguardante la definizione della sovranità su un’ampia porzione di Mar Glaciale Artico, che Mosca vorrebbe far rientrare nella propria Zona di Esclusività Economica “allargata” stante la grandezza dello zoccolo continentale e altri limiti geologici dati dalle dorsali oceaniche, per poter sfruttarne le ricchezze minerarie, date non solo dagli idrocarburi ma anche, ad esempio, da depositi di manganese e ferro che si trovano sui fondali nella forma di noduli.

Un Artico che, quindi, si sta progressivamente militarizzando, con evidenti disparità tra quanto sta facendo la Russia, che ha varato una politica più incisiva fatta di nuove installazioni militari, ristrutturazione di quelle ereditate dal periodo sovietico e soprattutto la programmazione della costruzione di nuovi rompighiaccio – che facilmente sarebbero dual use, e quanto stanno facendo Stati Uniti e alleati, che risultano essere più indietro sebbene dispongano, potenzialmente, di capacità di proiezione militare maggiori rispetto a quelle russe.

Base dell’esercito russo a Kotelny Island (foto: EPA/RUSSIAN DEFENCE MINISTRY)

Un conflitto per le isole

Come e dove sarebbe, quindi, un ipotetico conflitto per il controllo dell’Artico?

A giocare una parte fondamentale sarebbero le isole e gli stretti, pertanto si tratterebbe, sostanzialmente, di un conflitto di tipo aeronavale con importanti operazioni anfibie. L’Artico è contornato da arcipelaghi e grosse isole che giocano un ruolo cruciale per il controllo dello spazio aero-marittimo: Groenlandia, Svalbard, Jan Mayen, Terra di Francesco Giuseppe, Nuova Zemlja e Severnaja Zemlja senza considerare il vasto arcipelago canadese sono tutti punti di partenza per operazioni militari, e potenzialmente obiettivi.

Lo Stretto di Bering e gli accessi al Mare di Barents sarebbero, inoltre, teatro di confronto aeronavale in quanto passaggi obbligati cruciali per il traffico marittimo e quindi per la sicurezza delle linee di rifornimento. In particolare il ben noto Giuk Gap, tornerebbe – anzi, è già tornato – a essere fondamentale: i bracci marittimi che separano Groenlandia, Islanda e Regno Unito (da cui l’acronimo Giuk) sono infatti tornati a essere costantemente pattugliati dallo strumento aeronavale della Nato in quanto la Russia, da tempo – almeno dal 2008 quando ha ricominciato le crociere dei suoi pattugliatori marittimi e bombardieri – ha ricominciato a proiettarsi verso l’Oceano Atlantico.

A fine ottobre del 2019, ad esempio, non meno di 10 sottomarini della Voenno-Morskoj Flot, la marina russa, hanno attraversato più o meno contemporaneamente quei passaggi per dirigersi in Atlantico in una mossa che, per entità, non si assisteva dai tempi della Guerra Fredda.

Tornando a un ipotetico conflitto, il primo colpo sarebbe quasi sicuramente sferrato nelle profondità marine tranciando i cavi di comunicazione avversari in modo da rendere difficoltosi i collegamenti con gli avamposti nelle isole.

Ovviamente il campo di battaglia vero e proprio sarebbe diverso a seconda dell’attore che si rende protagonista assumendo l’iniziativa. Ipotizzando un attacco russo, molto probabilmente Mosca cercherebbe di assumere il controllo delle Svalbard a occidente e dell’isola di San Lorenzo e di San Matteo nel Mare di Bering a oriente.

Il controllo di questi territori assicurerebbe la sorveglianza sulla rotta artica e, grazie alle Svalbard, la possibilità di allungare il proprio braccio nel Mar Glaciale Artico instaurando una nuova zona Anti Acess / Area Denial con la possibilità di farne anche una base di partenza per colpire gli insediamenti alleati in Groenlandia e in Islanda.

Le condizioni ambientali, come detto, sono proibitive pertanto le operazioni verrebbero effettuate durante il periodo di contrazione del pack e approfittando della superiorità nel numero dei rompighiaccio, che diventano fondamentali per assicurare i rifornimenti.

La componente aerea sarebbe essenziale per il buon esito delle operazioni, e la Russia ha dimostrato di voler guardare al fronte artico più attentamente da questo punto di vista: rischieramenti di bombardieri strategici hanno cominciato a vedersi nella penisola di Kola, oltre a diverse missioni addestrative condotte nei cieli artici, a cui si aggiunge la presenza, per il momento saltuaria, di caccia MiG-31 in basi a ridosso e oltre il Circolo Polare, per testarne le doti in clima artico. Questo caccia, nella versione K, è in grado di lanciare il missile balistico ipersonico Kh-47M2 che è un'arma adatta per effettuare attacchi di alta precisione in profondità, sfruttando l'autonomia del velivolo lanciatore.

Come detto il conflitto sarebbe principalmente aeronavale: la flotta russa verrebbe mobilitata in tutte le sue componenti – di superficie, aerea e subacquea – per garantire la protezione dei convogli e delle operazioni di sbarco anfibio in un ambiente che conosce bene e che rappresenta, sin dai tempi della Guerra Fredda, il “bastione” da cui operano i suoi sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare.

Non è da escludere la possibilità di un'azione terrestre verso i porti e le basi nel nord della Norvegia violando la “neutralità” - che ormai non è quasi più tale – di Finlandia e Svezia per allargare la fascia di sicurezza delle proprie linee di comunicazione verso le isole, ma più plausibile sarebbe un pesante attacco missilistico nelle prime ore dell'attacco per mettere fuori uso le infrastrutture e i comandi.

(Foto: EPA/VADIM SAVITSKY/RUSSIAN DEFENCE MINISTRY)

Il contrattacco dell'Alleanza

La risposta della Nato sarebbe innanzitutto rivolta a interrompere i tentativi di sbarco e interdire le linee di navigazione (marittime e aeree) utilizzando lo strumento navale e aereo partendo dalle basi su cui può contare in Norvegia, Regno Unito, Islanda (Keflavik) e Groenlandia (Thule). Sicuramente verrebbero impiegati i gruppi di portaerei statunitensi e britannici e molto probabilmente, come attività preventiva, forze sarebbero dispiegate in Islanda, Norvegia e Groenlandia per fornire un deterrente contro possibili ulteriori invasioni.

Dall'Alaska e dagli avamposti nelle Aleutine partirebbe l'attività di contrasto agli sbarchi russi nel Mare di Bering, in particolare l'hub di riferimento sarebbe la base aerea di Elmendorf (nei pressi di Anchorage). Anche in questo fronte l'U.S. Navy sarebbe in prima linea coi suoi gruppi navali. Probabilmente, data la maggiore superiorità numerica e qualitativa, Nato e Usa otterrebbero facilmente la superiorità aerea rendendo molto difficile la sopravvivenza dei contingenti da sbarco russi e l'attività navale, anche se Mosca dovesse scegliere di concentrarsi su uno solo degli obiettivi individuati in precedenza.

Consolidata questa superiorità l'Alleanza procederebbe alla riconquista delle isole occupate con uno sbarco anfibio massiccio che verrebbe contrastato principalmente dall'aviazione russa e dalla componente sottomarina, riservando alle unità di superficie l'attività di interdizione a lungo raggio utilizzando missili da crociera antinave, che Mosca ha montato anche su unità minori come da prassi russa. La Nato, che non ha mai abbandonato l'addestramento in climi freddi, recentemente ha mostrato di aver aumentato questo sforzo addestrativo organizzando esercitazioni in Norvegia ma soprattutto in Islanda, dove si è vista anche la partecipazione di distaccamenti di Marines in assetto da sbarco, ovvero supportati da unità tipo Lhd (Landing Helicopter Dock), durante Trident Juncture 2018. Guardando a una carta geografica, infatti, l'Islanda – più della Norvegia a causa della sua vicinanza al confine russo – rappresenterebbe il fulcro della operazioni Nato oltre il Circolo Polare, e infatti le manovre che si effettuano nell'isola riguardano principalmente la difesa delle linee marittime intorno ad essa.

Esercitazione Brilliant Jump 2022 della Nato in Norvegia (Foto EPA/Geir Olsen)

Uno scenario comunque lontano

Da questa trattazione è stata volutamente esclusa l'attività nell'area del Baltico, che molto probabilmente avrebbe luogo in concomitanza con un assalto nell'Artico, perché esula dai fini della nostra trattazione e non è stata considerata la partecipazione di Finlandia e Svezia, in quanto nel momento in cui scriviamo non sono ancora formalmente entrate nell'Alleanza Atlantica.

Questo scenario che abbiamo dipinto è, ovviamente, del tutto ipotetico: riteniamo che la Russia, in questo momento e per alcuni anni a venire, non abbia la capacità di mettere in atto un'azione simile per via dell'erosione della sua capacità bellica nel conflitto in Ucraina. Capacità che, riteniamo, debba essere fortemente ridimensionata stante il corso degli eventi in quel teatro.

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