La Cina ha in corso una massiccia campagna di modernizzazione dei suoi armamenti a seguito del cambio di dottrina strategica che, almeno da due lustri, sta rivoluzionando la postura dell’Esercito Popolare di Liberazione (Pla). Il programma di rinnovo, oltre che dal cambio di passo della strategia generale cinese che ha ampliato il raggio d’azione dei suoi interessi proiettando il Paese verso l’intervento globale, parte anche da alcune considerazioni sul cambio radicale che ha provocato l’ingresso della tecnologia cibernetica sul campo di battaglia che trova impiego in un vasto spettro di sistemi d’arma e di teatri: dagli scenari più classici della guerra aerea, navale e balistica sino al fronte rappresentato dallo spazio e della guerra informatica.
Già nel 2009 si era avuta la prima modernizzazione del complesso militare cinese che era diventato via via più “netcentrico” a tutti i livelli di comando, proiettando così la Cina da una visione strategica locale, il contrasto a Taiwan, verso il controllo dei mari contigui e della “Prima Catena di Isole” facendo così rientrare Pechino nel novero delle potenze regionali. Questa nuova dottrina, che attualmente è in via di implementazione nella direzione di trasformare la Cina in una potenza globale propriamente detta, quindi con capacità di proiezione di forza a grande distanza, è stata guidata dalla dottrina Local War Under Informatization per cercare di colmare il divario tecnologico con il suo avversario principale: gli Stati Uniti. Questa rivoluzione è intesa a sviluppare un’architettura pienamente informatizzata capace di coordinare le operazioni militari in terra, aria, mare, spazio e ovviamente nel dominio cibernetico ed elettromagnetico.
Controllo locale espansione globale
Attualmente, nonostante gli enormi sforzi della Cina per dotarsi di capacità di proiezione di forza globali dando quindi impulso alla cantieristica navale (sono in costruzione nuove portaerei ed è previsto che ne siano costruite di nucleari), la postura strategica è ancora ancorata al livello regionale ed è facile capirne il perché.
La Cina, geograficamente, ha una condizione sfavorevole rispetto agli Stati Uniti. Innanzitutto è circondata da alleati e amici degli Usa, come Giappone, Corea del Sud e Filippine, che in caso di conflitto rappresentano un vero e proprio coltello alla gola per Pechino; secondariamente non ha il controllo diretto degli accessi marittimi (i choke point) ai suoi mari interni, che invece sono soggetti alla sfera di influenza americana. Come tutte le potenze in aria di talassocrazia la Cina deve avere il controllo delle vie di accesso marittime che la mettono in condizione non solo di potersi proiettare a livello globale, ma che rappresentano soprattutto la chiave per la propria sopravvivenza.
È ben noto, agli addetti ai lavori, il “Dilemma della Malacca” che attanaglia da decenni la classe politica cinese: per lo stretto che separa l’Indonesia dalla Malesia mettendo in comunicazione Oceano Indiano e Mar Cinese Meridionale transita la stragrande maggioranza delle merci da e per la Cina, pertanto il timore di Pechino è quello che, in caso di conflitto – anche locale – gli Stati Uniti possano bloccarne l’accesso grazie all’enorme capacità di proiezione di forza data dall’Us Navy e grazie alle possibilità logistiche date dall’avere alleati e amici in quell’area geografica che possono mettere a disposizioni basi navali e aeree a Washington.
Risulta quindi chiaro come, nei piani cinesi, il primo passo sia quello di assicurarsi che le vie di comunicazioni marittime restino aperte nella peggiore delle ipotesi, da qui la necessità di controllare la regione geografica che va dal Giappone sino all’Indonesia passando per le Filippine.
In questo senso diventa centrale il controllo sul Mar Cinese Meridionale, dove infatti la Cina, ormai da qualche anno, sta progressivamente aumentando la propria presenza militare sugli arcipelaghi che lo costellano per poter instaurare una bolla A2/AD (Anti Access / Area Denial) capace di tenere lontano l’Us Navy, e che in un prossimo futuro le permetterà di proiettare la sua potenza a livello “oceanico” una volta che avrà colmato il divario tecnologico in fatto di sistemi di sorveglianza a lungo raggio che la separa ancora dagli Stati Uniti.
Questo scenario dovrebbe far riflettere la politica anche in Europa ed in particolare in Italia. La questione del “Mediterraneo allargato”, che vede il Mare Nostrum al centro di un sistema di vie di comunicazione che va dall’Oceano Indiano al Golfo di Guinea, è fondamentale per il controllo geopolitico della regione, in particolare per la nostra sicurezza economica e per la stabilità politica di tutta l’area del Sud Europa. Pertanto non è più possibile temporeggiare nella risoluzione dei problemi che riguardano la stabilità del Nord Africa e del Medio Oriente e nemmeno pensare che siano sempre gli Stati Uniti a porvi rimedio, visto il cambio di vedute della Casa Bianca dato dall’avvento di Trump.
Tornando alla questione cinese, è bene sottolineare che l’attuale postura strategica locale è solo il primo passo verso una nuova visione mondiale. Pechino, oltre ad aver in corso programmi per nuovi strumenti militari in grado di avere raggio globale (portaerei e bombardieri), sta gettando le fondamenta di una nuova impalcatura per avere un’effettiva proiezione logistico/militare globale: basi cinesi ed insediamenti portuali made in China sorgono ovunque dall’Africa all’Asia lungo i mari che connettono il Mediterraneo al Mar Giallo. La realizzazione della One Belt One Road (la Nuova Via della Seta) è finalizzata proprio a elevare Pechino al rango di gigante globale non solo a livello economico.
La corsa agli armamenti cinese: missili, spazio e cyber warfare
Affrontare in dettaglio il piano di riarmo e rinnovo delle Forze Armate cinesi implicherebbe una trattazione lunga data la mole di nuovi sistemi d’arma che la Cina è stata in grado di dispiegare solamente negli ultimi 5 anni: testate missilistiche Hgv (Hypersonic Glide Vehicle), missili da crociera supersonici, missili Asbm (Anti Ship Ballistic Missile), laser e missili antisatellite, droni di vario tipo, velivoli stealth sono solo alcune delle ultime novità viste recentemente.
Per comodità, e soprattutto per il fatto di essere un campo del tutto nuovo, ci soffermeremo sulle capacità cibernetiche e sullo space warfare, che richiede pertanto un rapido sguardo alla dottrina delle forze strategiche missilistiche cinesi.
Attualmente il divario tecnologico nel campo dell’informatica tra Cina e Stati Uniti è ancora significativo sebbene si stia assottigliando. Pechino utilizza ancora, per la propria tecnologia, sistemi americani di quelle società che definisce “gli otto King Kong”: Apple, Cisco, Google, Ibm, Intel, Microsoft, Oracle e Qualcomm. La pesante dipendenza cinese da queste compagnie americane rende necessario lavorare verso lo sviluppo di tecnologie domestiche per poter mettere in sicurezza la rete cibernetica nazionale, che attualmente ha dimostrato di essere particolarmente esposta ad attacchi cyber la cui provenienza è stata individuata per la maggior parte in attori nordamericani e nipponici.
In questo senso Huawei ha fatto passi da gigante, soprattutto diventando la leader della nuova rete 5G, ma la strada è ancora lunga sebbene vi siano alcuni analisti oltreatlantico che considerano questo divario pericolosamente sottile tanto da poter mettere a rischio il dominio statunitense in campo informatico.
L’ultima frontiera, oltre il dominio cibernetico, è rappresentata dallo spazio. La Cina ha dimostrato di essere particolarmente attiva in questo ambito implementando sia le capacità antisatellite sia le proprie infrastrutture e sistemi annessi. Non è una novità che nuovi laser, basati a terra, siano in grado di interferire con velivoli e satelliti da ricognizione “accecandone” i sensori ottici.
Qui gli Stati Uniti sentono forse di più l’assottigliarsi del divario tecnologico: il generale dell’esercito Robert Ashley, direttore della Dia (Defense Intelligence Agency) interpellato in merito ai sistemi spaziali delle due potenze ha riferito, durante il recente forum tenutosi in Colorado, che “non posso dire chi è davanti e chi dietro” in questa corsa agli armamenti spaziali.
In particolare, come si legge nel rapporto di quest’anno dell’agenzia di intelligence americana, gli strateghi dell’Esercito Popolare di Liberazione “considerano la capacità di utilizzare sistemi basati nello spazio e quella di negare il loro utilizzo agli avversari fondamentale per attuare la modernizzazione delle Forze Armate. Come risultato, il Pla continua a rafforzare le sue capacità militari spaziali a dispetto delle dichiarazioni pubbliche che vanno contro la militarizzazione dello spazio”.
Questa capacità risulta fondamentale nella dottrina di impiego dell’arsenale strategico (e tattico) nucleare cinese. Dato il numero piuttosto esiguo di testate e vettori a disposizione di Pechino (si calcola disponga di 120 testate e 186 vettori basati a terra) se rapportato a quelli statunitensi, il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese ha indirizzato la propria strategia verso la capacità di “secondo colpo”, ovvero quella di essere in grado di sopravvivere ad un primo attacco Usa (in gergo first strike) e quindi lanciare un contrattacco di ritorsione, indirizzato, dato il numero di testate e dati i sistemi di guida non ancora precisi come quelli americani, verso obiettivi d’area come città, porti, aeroporti, basi militari e complessi industriali.
Essere in grado di disturbare rendendolo inefficiente ed addirittura eliminare (anche parzialmente) il sistema satellitare americano significa infatti colpire le capacità di comunicazione, ricognizione e allarme precoce di Washington, quindi sia mettersi al sicuro da un secondo colpo sia assicurare una maggiore probabilità di successo del proprio attacco di ritorsione.
Secondariamente, ma non per questo meno importante, avere assetti in grado di portare la guerra nello spazio (nel suo più ampio spettro) significa anche colmare quel divario attualmente esistente che permetterà alle bolle A2/AD del Mar Cinese Meridionale di essere maggiormente efficaci nel contrasto ai Csg (Carrier Strike Group) americani e, andando oltre, arrivare a colpire le basi ed i porti utilizzati dagli Stati Uniti nell’area indopacifica con l’utilizzo di missili balistici a raggio medio e intermedio, che rappresentano il 95% dell’arsenale missilistico cinese. Si capisce quindi perché Washington ha stracciato il Trattato Inf dopo poco più 30 anni dalla sua entrata in vigore.
Il ruolo dell’Europa in questa escalation
Risulta interessante dare uno sguardo più vicino a casa nostra, ovvero al ruolo che ha l’Europa in questa catena di eventi dalle implicazioni globali.
Attualmente brilliamo per la nostra assenza, o, per meglio dire, per il nostro atteggiamento passivo nei confronti della corsa tecnologica cinese. Pechino, infatti, proprio perché cosciente del divario che la separa da Washington, sta cercando partnership industriali in Europa in campo aerospaziale così da implementare le proprie competenze con il solito lavoro di retroingegneria.
Là dove non vengono raggiunti accordi di collaborazione, la Cina sfrutta le sue abilità nel cyber warfare per attaccare i sistemi informatici delle industrie europee, come nel caso di Airbus che ha subito diversi attacchi di gruppi di hacker di Stato che hanno violato il network del gruppo francotedesco per carpirne i segreti degli impianti elettronici e motoristici.
Anche l’ingresso del 5G di Huawei potrebbe rappresentare un cavallo di Troia pericoloso in questo senso: le reti potrebbero essere non sicure, avere delle falle appositamente create per facilitare il passaggio di dati sensibili verso la Cina.
Se la ricerca di collaborazioni con industrie europee può essere indice di una certa arretratezza tecnologica della Cina, non è però da sottovalutare il rischio che questo divario si colmi rapidamente e che venga superato: questa gara tra Washington e Pechino potrebbe rendere obsoleta l’industria europea in tempi relativamente brevi e saremo stati proprio noi europei, animati da mero spirito mercantilizio, ad essere stati fautori della nostra stessa arretratezza.