Porre fine alle guerre americane, ricalibrare la presenza militare all’estero concentrando risorse sul fronte caldo del Pacifico al fine di evitare lo scontro con la Cina e tornare ad occuparsi delle questioni che affliggono la società Usa. Questa era l’agenda che Joe Biden intendeva seguire durante il suo mandato, come da lui stesso definito, di transizione. “Il problema, come sempre, è che la politica estera non va mai via”, ricordava già a maggio del 2021 Josef Joffe, editor del settimanale Die Zeit ed esperto di affari internazionali, in occasione dei primi 100 giorni alla Casa Bianca del presidente democratico elencando le sfide alla potenza a stelle e strisce: la Russia, la Cina, il Medio Oriente, la bomba iraniana.
Di lì a poco, a partire dall’agosto del 2021, sarebbe infatti cominciata una slavina di eventi che avrebbe messo in luce come i piani e le intenzioni di Biden fossero, nella migliore delle valutazioni, un mero esercizio di pensiero magico. Il ritiro programmato degli Stati Uniti dall’Afghanistan avrebbe dovuto porre fine al ventennio delle forever wars americane cominciate all’indomani dell’11 settembre. Le informazioni di intelligence avevano però sottostimato i tempi necessari ai talebani per riprendere il controllo del Paese e l’evacuazione da Kabul sarebbe stata segnata dalle immagini dei civili in preda al panico accorsi in massa all’aeroporto per cercare di sfuggire al ritorno degli integralisti.
La gestione caotica del ritiro americano dal Paese tomba degli imperi aveva trasmesso l’impressione di una nazione colta in contropiede e ridato fiato ai sostenitori della tesi dell’America in declino. Un segnale di debolezza che, secondo molti analisti, avrebbe convinto Vladimir Putin a lanciare l’operazione militare contro l’Ucraina nel febbraio del 2022.
L’attacco di Hamas ad Israele del 7 ottobre e la possibilità che l’Iran entri nel conflitto, oltre a dimostrare ancora una volta l’inevitabile ritorno della politica estera nell’agenda del presidente Usa, rappresentano uno stress test senza precedenti per gli Stati Uniti. Il supporto fornito da Washington sin dall’inizio della guerra d’aggressione russa contro Kiev e, adesso, il dispiegamento di una massiccia forza militare in Medio Oriente come misura di deterrenza contro le mosse del regime degli ayatollah e dei suoi proxies complicano i calcoli di Biden alle prese con i rischi di quella che è stata definita un overstretched superpower.
“Questo è il momento più pericoloso dalla fine della Guerra fredda” afferma Matthew Kroenig, analista del think tank Atlantic Council, il quale aggiunge che se “Iran ed Hezbollah dovessero entrare in campo, gli Stati Uniti potrebbero essere costretti ad intervenire. E se a quel punto la Cina dovesse sfruttare l’opportunità di muovere contro Taipei?” I due conflitti in corso e le loro implicazioni geopolitiche potrebbero infatti fare da precursori ad una terza crisi nel Mar Cinese Meridionale. La riconferma al potere del partito progressista democratico alle elezioni del gennaio 2024 a Taiwan potrebbe fornire a Xi Jinping il pretesto per liquidare una volta per tutte la questione dell’isola ribelle approfittando dell’impegno di Washington su più fronti.
Il conflitto in Ucraina e quello in Israele sarebbero quindi parte di quello che Biden ha definito un “punto d’inflessione” che Russia, Iran e Cina starebbero interpretando come sintomo della debolezza degli Usa. Una lettura che per i tre Paesi troverebbe conferme nella cancellazione del meeting in Giordania, a seguito dell’esplosione avvenuta nel parcheggio dell’ospedale di Gaza attribuita da Hamas ad Israele, a cui avrebbe dovuto partecipare Biden insieme ai leaders della regione.
Per l’Economist gli Stati Uniti però rimangono ancora la “nazione indispensabile”. Una testimonianza della centralità della potenza americana è data dalla volontà di molti Paesi di stringere accordi con gli americani per tutelarsi contro la Russia, la Cina, l’Iran e la Corea del Nord. “I telefoni a Mosca e a Pechino non squillano. A Washington invece il telefono non smetta mai di squillare” dichiara Ivo Daalder, ex rappresentante Usa alla Nato.
“La leadership americana è ciò che tiene il mondo unito. Le alleanze americane sono ciò che ci mantiene al sicuro” ha dichiarato Biden qualche settimana fa in un discorso alla nazione. Un passaggio chiave che completa la sua trasformazione in un improbabile, sino a poco tempo fa, presidente di guerra.
In un editoriale il Wall Street Journal ricorda però che la minaccia per la Casa Bianca non viene solo da Paesi stranieri ostili. Il quotidiano finanziario afferma che, oltre al mondo, “anche la disfunzionalità politica a Washington è diventata più pericolosa. Se gli Stati Uniti non possono aiutare due suoi alleati a difendersi il resto del mondo penserà che i nostri avversari hanno ragione sul declino dell’America”. Un’altra sfida, dunque, tutta nazionale, di cui Biden dovrà tenere conto.