L’Asia è sempre più un crocevia di tensioni. La pandemia ha accelerato una serie di processi in particolare intorno alla Cina. Pechino si è mostrata più aggressiva e diversi focolai sono scoppiati lungo le sue frontiere, come nel caso del Mar Cinese Meridionale, o gli scontri in Ladakh lungo il poroso confine Sino-Indiano. Ma questi processi coinvolgono anche il resto del continente, con “un’altra-Asia” che si sta attivando per contenere la Repubblica popolare.
Partiamo da due esempi banali per capire il clima che si respira. Uno dei territori che meglio ha risposto all’emergenza sanitaria è stato Taiwan. Per questo molti Paesi, tra i quali Giappone e Australia, hanno provato a spingere per riportare Taipei nell’Oms come Stato osservatore. Un’operazione provocatoria, in molti casi utile per ragioni di politica interna, ma segno di qualcosa di più profondo.
A inizio giugno proprio i cittadini di Taiwan si sono uniti a quelli di Hong Kong e della Thailandia sotto l’insegna della “Milk Tea Alliance”. Una battaglia digitale contro i troll cinesi partita dopo che questi avevano attaccato un attore thailandese su Twitter per aver pubblicato una foto dell’ex colonia britannica. La stessa “alliance” ha poi promosso una campagna contro i progetti cinesi lungo il fiume Mekong responsabili per le ondate di siccità nel Sud-Est asiatico. Questi episodi si inseriscono in uno schema più grande e complesso.
Un continente in ebollizione
Tutta la regione asiatica, spiega a InsideOver Giulia Sciorati, Research Associate all’Asia Centre di Ispi, “è caratterizzata da una competizione bilaterale che vede Pechino e i suoi alleati (in particolare il Pakistan) contrapporsi a un consorzio di potenze, Usa, Giappone, India, Australia e Sud Corea che in qualche modo hanno creato un contrappeso alla Cina”. Una competizione che si manifesta in alcuni focolai di crisi: “Siamo ancora in una situazione di instabilità generale, per cui essendo il coronavirus un acceleratore si rischia che le tendenze attuali deflagrino come successo tra Cina e India”.
I segnali di queste tensioni arrivano tutti i giorni e non è un caso che a luglio si siano tenute una serie di esercitazioni nelle calde acque dell’Indo-Pacifico. Due di queste mostrano un impegno più aggressivo degli Stati Uniti, ma in entrambi i casi è interessante vedere quali sono i partner.
L’India prova a rompere l’accerchiamento cinese
Tra il 20 e 21 luglio quattro navi della marina indiana hanno condotto un passage exercise con il gruppo di attacco della portaerei statunitense Uss Nimitz. L’esercitazione, che mirava a verificare l’interoperatività tra le due forze navali, si è tenuta tra le isole Andamane e Nicobare, due arcipelaghi poco lontani dal Bangladesh. Come ha ricordato il quotidiano The Hindu l’India insiste da tempo con questo tipo di operazioni lavorando soprattutto sulla mobilità della sua marina.
#USSNimitz Carrier Strike Group, #IndianNavy ships conduct cooperative exercises in Indian Ocean: https://t.co/jek6laJVMH #NavyPartnerships @US7thFleet pic.twitter.com/Rxpb28Wosk
— U.S. Pacific Fleet (@USPacificFleet) July 20, 2020
A giugno il governo Modi ha trovato un’intesa con l’Australia per la fornitura di supporto logistico a mezzi navali indiani in basi e installazioni di Canberra, intesa già siglata con Usa, Francia, Sud Corea e presto col Giappone, Russia e Regno Unito. Il governo indiano punta così ad aumentare il raggio di azione delle sue navi soprattutto in funzione anticinese sia nella regione dell’Oceano Indiano che nel vicino Pacifico occidentale.
“Attraverso l’alleanza col Pakistan e grazie alla Nuova via della Seta, la Cina ha uno sbocco nel porto di Gwadar”, spiega ancora Sciorati, “in più con il controllo del porto di Hambantota in Sri Lanka ha un altro appoggio nell’Indo-Pacifico. Se si triangolano i porti è chiaro quanto sia importante la presenza cinese in questo tratto di mare e di come si stia spingendo dentro un territorio che di solito è influenzato dall’India”.
Nuova Dehli sta quindi concentrando i suoi sforzi per cercare di rompere, o quanto meno indebolire, questo accerchiamento. Negli ultimi anni ha perso uno per uno gli alleati storici come Bangladesh, Sri Lanka e soprattutto Nepal. Per questo ha bisogno di stringere nuovi patti, indipendentemente dall’appoggio di Washington. Gli accordi logistici vanno a sommarsi con altre operazioni navali. Il 27 giugno scorso le navi militari indiane INS Kulish e INS Rana hanno condotto un passage exercise insieme a due mezzi della marina giapponese la JS Shimayuki e la JS Kashima. Un segno che anche Tokyo si sta muovendo.
Le spine di Giappone e Australia
La seconda esercitazione che si è tenuta in luglio è stata ancora più delicata. Il gruppo di attacco dell’americana Uss Ronald Reagan ha svolto una serie di manovre insieme alle forze navali giapponesi e australiane. I “giochi navali” si sono svolti nel Mar delle Filippine non lontano dal contestato Mar Cinese Meridionale. Queste operazioni si inseriscono all’interno della cosiddetta strategia dell’Indo-Pacifico libero e aperto: «un concetto», continua l’analista Ispi, «che Stati Uniti e Giappone hanno proposto e al quale si sono accodati Australia e India e alla luce delle relazioni con Washington anche la Corea del Sud».
Queste operazioni gettano nuova luce sui mutati atteggiamenti di Tokyo. In Giappone è tornato a spirare un vento anti-cinese piuttosto forte a causa della pandemia. Qualche mese prima della diffusione del coronavirus i due paesi stavano vivendo un momento di distensione, che sarebbe dovuto culminare con la visita di Stato di Xi Jinping proprio a nella capitale giapponese in aprile. Il viaggio diplomatico ovviamente è saltato e non è stato nemmeno riprogrammato.
L’Australia ha invece trovato nuovo slancio per la sua contrapposizione con Pechino. È stata la prima a chiedere un’indagine formale sulla diffusione dell’epidemia e si sta adoperando per migliorare il contenimento in tutto il quadrante asiatico. Canberra è molto preoccupata per la penetrazione cinese nel Pacifico occidentale, diversi Paesi hanno firmato memorandum sulla Nuova Via della Seta arrivando fino al cortile di casa australiano come in Papua Nuova Guinea.
Il trauma del Tpp e la ricerca di una nuova intesa
Ma per contenere la Cina non basteranno esercitazioni e accordi bilaterali. I Paesi dell’area si muovono in uno scenario frammentato in cui pesa l’addio al Partenariato Trans-Pacifico da parte degli Stati Uniti avvenuto nel 2017. “Per gli attori asiatici l’abbandono del TPP è stato un grande trauma, era qualcosa di molto atteso e molto supportato nell’area”, continua Sciorati.
Sotto la presidenza di Donald Trump Washington ha ridisegnato la sua policy in Asia intorno alla Cina come competitor sistemico a discapito di un approccio più regionale. Ma le recenti dichiarazioni del segretario di Stato contro l’assertività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale hanno riacceso i riflettori su possibili nuove intese tra Washington e i partner locali.
Il più poteri al Quad e il ritorno degli Usa
In attesa del delicato passaggio elettorale delle presidenziali americane la principale policy nella regione resta quella dell’Indo-Pacifico libero e aperto. Al momento il braccio operativo di questa strategia può essere individuato nel Quad (Quadrilateral Security Dialogue), un forum nato nel 2007 tra Australia, Giappone, India e Usa che ha trovato nuova vita dopo l’avvio della Belt and Road iniziative e soprattutto con l’esplosione della pandemia. Il 20 marzo scorso si è tenuta una nuova riunione telefonica del Quad, questa volta aperta anche a Nuova Zelanda, Vietnam e Corea del Sud.
Ufficialmente, si legge in un comunicato del ministero degli Esteri indiano, il meeting era dedicato all’emergenza Covid, ma l’allargamento del gruppo è destinato ad essere confermato. Intanto un momento chiave sarà l’esercitazione trilaterale Malabar tra India, Usa e Giappone che si terrà come ogni anno in autunno e che nel 2020 potrebbe rivedere la presenza dell’Australia dopo cinque anni di assenza.
Se è vero che l’epidemia ha accelerato i processi in corso, va ricordato che per ora è difficile delineare le traiettorie che avranno. Fino all’amministrazione di Barack Obama, conclude Sciorati, “c’era un bilanciamento tra il big power statunitense e i middle power della regione, oggi non sappiamo se sarà sufficiente una loro alleanza per bilanciare la Cina”. A pesare è soprattutto l’incertezza americana. L’amministrazione Trump ha spinto molto per smobilitare i grossi impegni americani nel mondo, sfidando gli alleati a pagare di più per ospitare le truppe, e lavorano per chiudere lunghi conflitti. A frenare su questo “ritiro” sono stati soprattutto Congresso e Pentagono. Non a caso la prossima legge di bilancio per la Difesa su cui Camera e Senato stanno lavorando, prevede di stanziare risorse specifiche per la policy nell’Indo-Pacifico.