I numerosi appelli dei civili di Aleppo, intrappolati sotto le bombe dell’aviazione russa e siriana, hanno fatto il giro del mondo. Video registrati direttamente dalla prima linea, inquadrature strette registrate con lo smartphone e un misto di adrenalina e paura. Appare il volto di Lina Shamy, incastonato in un velo marrone. Lina ha ventisei anni e porta gli occhiali a lenti larghi, come tanti suoi coetanei occidentali. Nel suo appello dice: “A tutti quelli che riescono a sentirmi, ad Aleppo stiamo vivendo un genocidio. Questo potrebbe essere il mio ultimo video”. Ma chi è Lina? Si è scritta su Twitter nel settembre del 2012 e, da questo social, si è sempre premurata di fare propaganda al variegato mondo dei ribelli. Non solo ai ribelli moderati, ma, troppo spesso, al gruppo radicale Jaysh al islam (L’esercito dell’islam). Il 26 dicembre 2015, all’indomani della morte di Zaharan Allush, leader del movimento, Lina cambia la propria immagine di copertina su Facebook. Decide di mettere proprio il volto del defunto Alloush.Sempre il 26 dicembre “ritwitta” un post in cui si esprime stima e fedeltà al Jaysh Al Islam. Alloush, val la pena ricordarlo, espresse in più occasioni la propria stima nei confronti di Osama bin Laden e dei “fratelli” di Al Nusra. In altre occasioni usò civili come scudi umani.
Piccoli indizi che dimostrano, se mai ce ne fosse ancora bisogno, chi gravita attorno ai cosiddetti “ribelli moderati”. Un altro volto dei video inviati da Aleppo sotto assedio è quello di Bilal Abdul Kareem, giornalista e video maker americano che ha deciso di trasferirsi in Siria. La sua storia è singolare. Nasce nel 1970 nello Stato di New York. È un ragazzino modello. Gioca a baseball e la domenica va in chiesa a fare il chierichetto. A scuola si segnala per le sue doti oratorie tanto da vincere alcuni premi. È la svolta per Bilal. Comprende la potenza delle sue capacità comunicative e decide di lanciarsi nel mondo dello spettacolo. Nel 1997 qualcosa cambia. Si trasferisce vicino a una moschea di Brooklyn, dove per la prima volta sente la chiamata all’islam. Guarda i musulmani che vanno a pregare in moschea, studia il Corano e alla fine cede: si converte all’islam. Vuole imparare l’arabo, così inizia a frequentare alcuni corsi. Decide poi di trasferirsi in Sudan per perfezionare la lingua. Si sposta poi in Egitto, dove conosce Yasser (non è dato sapere il cognome), che diventerà il suo più grande amico. Nel 2012, dopo alcune incomprensioni con una tv araba, si trasferisce in Siria “per documentare la resistenza dei combattenti che lottano contro Assad: “Mi sono fatto un’idea dei mujaheddin realizzando il mio reportage ‘Torture agreement’ nella Libia del dopo Gheddafi. Lì ho incontrato diversi combattenti islamici rispettabili che invocavano la legge islamica. Ero curioso di conoscere che tipo di combattenti avrei trovato in Siria. Così ho deciso di andare a documentare”. Bilal realizza importanti documentari per Channel 4, Bbc e Skynews. Tra i combattenti che incontra c’è anche Abu Firas al-Suri, il portavoce di Al Nusra ucciso dagli americani il 3 aprile 2016 nella provincia di Idlib. Un’intervista divisa in ben tre parti, come si può vedere qui.
Più che un giornalista, Bilal è un attivista, come si può vedere in questo video realizzato per On the Ground News, sito di informazione per il quale lavora.
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