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La tensione tra Cina e India, i due colossi asiatici che condividono un lunghissimo confine conteso, quello del Kashmir, non accenna a diminuire: dal 15 giugno, quando nella valle di Galwan, nella regione del Ladakh, soldati di entrambe le parti si sono affrontati a colpi di spranghe e sassate provocando circa una cinquantina di morti, Pechino e Nuova Delhi, sebbene abbiano mantenuti aperti i canali diplomatici, hanno continuato una progressiva escalation che ha visto, oltre ad altri piccoli scontri di confine, lo spostamento di divisioni e l’arrivo nelle regioni che confinano col Kashmir di assetti aerei e missilistici. Tutto fa pensare che i due Paesi si stiano preparando per uno scontro armato di più vasto raggio, come quello avvenuto nel 1962 quando la Cina invase lo stato indiano dell’Assam.

Quello che però colpisce, come ci ricorda il Bulletin of the Atomic Scientists, la rivista che ha coniato il Doomsday Clock – l’orologio dell’apocalisse – che oggi segna 100 secondi alla mezzanotte, è il fatto che India e Cina non abbiano mai usato la retorica “nucleare” nei loro contrasti diplomatici.

Stiamo vivendo un periodo storico in cui assistiamo a un ritorno in auge delle armi nucleari: dopo la fine delle Guerra Fredda ed il cambiamento della politica statunitense che, cessato il pericolo sovietico, si è trovata unica potenza egemone a fare da arbitro internazionale, alcune nazioni, come la Corea del Nord e l’Iran, hanno dato impulso al proprio programma atomico che, oltre agli scopi civili, permette di ottenere armamenti in grado di fungere da deterrente per scongiurare il possibile tentativo di sovversione del regime come è stato fatto in Libia, e come si è tentato di fare in Siria, due Paesi che, per un motivo o per un altro, hanno rinunciato al nucleare.

Ma la corsa agli armamenti atomici, nel senso però di rinnovamento e miglioramento dell’arsenale ma soprattutto di cambiamento della dottrina di impiego e della retorica diplomatica, riguarda anche le classiche potenze nucleari: la Russia e gli Stati Uniti. Nella fattispecie Mosca, già nel 2014 in occasione del putsch in Crimea e della sua annessione alla Federazione, fece sapere, un po’ sibillinamente, che “la Russia è una delle nazioni nucleari più potenti”: un avvertimento nucleare sottile ma chiaro per l’Occidente.

Passando al campo occidentale nel luglio 2016, alla domanda in Parlamento se sarebbe stata disposta ad autorizzare un attacco nucleare che potrebbe uccidere 100mila persone, il primo ministro britannico, Theresa May, rispose con fermezza “sì”. Successivamente è stata la volta della crisi tra Corea del Nord e Stati Uniti, con il leader Kim Jong-un che minacciava di nuclearizzare Washington con video di propaganda per celebrare i successi dei lanci di Icbm e dei test atomici ed il presidente Trump che si preparava all’escalation schierando bombardieri (anche se non nucleari) e sottomarini nel Pacifico Occidentale.

Venendo a tempi più recenti, nel febbraio 2019, dopo che un attacco alle forze paramilitari indiane a Pulwama ha portato a uno scontro tra le forze aeree dell’India e del Pakistan, il primo ministro pakistano Imran Khan ha avvertito della possibilità di una guerra nucleare. Per tutta risposta il primo ministro indiano Narendra Modi, colto nel fervore della campagna elettorale, ha risposto che le bombe nucleari dell’India non erano riservate per celebrare la festa dei fuochi d’artificio del Diwali. Dopo che l’India revocò lo status di regione autonoma del Kashmir in agosto, Khan ribadì che la guerra nucleare era un rischio reale con il suo ministro degli Esteri che ribadì l’avvertimento a Ginevra più tardi nel corso dello stesso anno.

Anche le dottrine di impiego sono in fase di cambiamento, e con esse le stesse armi nucleari: la Russia, ad esempio, a seguito della Nuclear Posture Review statunitense che prevede di utilizzare testate di basso potenziale e missili balistici lanciati da sottomarini con carica convenzionale, ha intrapreso una strada potenzialmente altrettanto pericolosa quando ha affermato che potrebbe impiegare il proprio arsenale atomico in caso che si assista all’accumulo di forze avversarie nei territori adiacenti alla Federazione e nelle aree marittime adiacenti, che includono anche vettori per il trasporto di armamento nucleare; il dispiegamento da parte di Stati che considerano la Russia un potenziale avversario, di sistemi e mezzi di difesa antimissile, di missili da crociera e balistici a medio e corto raggio, di armi non nucleari e ipersoniche di alta precisione, di veicoli aerei senza equipaggio e di armi ad energia diretta.

Particolarmente aleatoria è la decisione di rispondere con le armi atomiche anche in caso di un non meglio precisato attacco a installazioni militari o sistemi critici per lo Stato: il Cremlino qui sta dicendo che in caso di attacco cibernetico che colpisca mettendo fuori uso i gangli vitali della Difesa o dello Stato risponderà utilizzando l’arsenale nucleare.

Sostanzialmente, quindi, si è andato ad intaccare il principio della deterrenza basata sulla mutua distruzione assicurata vero delle possibilità, sempre più concrete, di un “primo colpo” non nucleare, o nucleare a basso potenziale, che però potrebbe innescare una reazione massiccia con l’arsenale atomico.

Da questo punto di vista il caso di Cina e India è emblematico di come, in un mondo in cui questa postura sta scatenando nella politica una fascinazione di ritorno per l’atomica (vedere il caso della Germania o del Giappone), le armi nucleari non siano mai state prese in considerazione durante la crisi, anzi, sembra quasi che entrambi i Paesi non intendano farvi ricorso, per il momento.

Il motivo di questa scelta è da ascriversi a un principio riguardante l’utilizzo dei propri arsenali che accomuna i due Paesi. Entrambi, infatti, adottano una politica di no first use, ovvero l’arsenale atomico serve esclusivamente come deterrente per scongiurare l’eventualità di un primo attacco nemico. In particolare la Cina, che possiede circa 180/190 vettori che possono trasportare le circa 220 testate a disposizione, adotta una postura tattica che potremmo definire “di minima allerta”, in quanto le forze nucleari (almeno quelle basate a terra) non hanno le testate montante sui missili in circostanze normali. Pechino quindi non intende usare armi atomiche contro nazioni che non ne siano dotate, o in quelle zone definite “denuclearizzate”, e pertanto si impegna a mantenere una minima capacità di deterrenza in funzione solamente di contrattacco. Qualora però il proprio arsenale atomico venisse minacciato e colpito da un attacco convenzionale proveniente da un qualsiasi avversario, la Cina si riserverebbe il diritto di utilizzare le proprie armi nucleari in risposta.

Allo stesso modo l’India non prevede di usare il proprio arsenale per un first strike nucleare adeguandosi al concetto della “deterrenza minima credibile” ritenuto sufficiente per scongiurare un primo attacco atomico avversario: sostanzialmente Nuova Delhi non impiegherebbe il suo armamento atomico se non in risposta ad un primo utilizzo da parte di un avversario. Questa filosofia deriva direttamente sia dalla considerazione che l’arsenale indiano nasce per fungere da deterrente rispetto a quello cinese, sia dal fatto che le Forze Armate indiane sono numericamente consistenti e qualitativamente avanzate rispetto a quelle pakistane.

C’è anche una considerazione di carattere squisitamente politico per questo particolare atteggiamento: la Cina, ad esempio, non vede l’India come una minaccia, ne respinge le grandi pretese di potenza regionale, ritiene illegittimo il suo possesso di armi nucleari e soprattutto si aspetta che il proprio vantaggio militare-nucleare cresca piuttosto che ridursi in futuro, come anche riconosciuto dal dipartimento della Difesa americano che ha recentemente lanciato l’allarme in merito alla volontà di Pechino di raddoppiare la consistenza del proprio arsenale atomico.

Di conseguenza, le azioni indiane non destano troppa preoccupazione per la Cina e non incidono sulle sue scelte strategiche. Al contrario il comportamento cinese guida la politica nucleare indiana. Toby Dalton e Tong Zhao, entrambi esperti di politica nucleare presso il Carnegie Endowment for International Peace, descrivono al Bulletin of the Atomic Scientists questo fenomeno come “deterrenza disaccoppiata”, dove “solo la potenza più piccola o più debole intraprende misure di ricerca della sicurezza in risposta alle azioni della potenza più grande, motivate da una minaccia diversa”. Il problema di questa postura cinese, però, è che i suoi missili non sono puntati contro l’India, e pertanto in caso di improvvisa crisi che non lasciasse spazio ad altre azioni diplomatiche o convenzionali, le forze missilistiche strategiche cinesi sarebbero potenzialmente in una posizione di svantaggio iniziale.

La dottrina del no first use di Cina e India è destinata a durare? Pechino e Nuova Delhi sono le uniche due, tra le nove nazioni che hanno armi atomiche, ad avere in essere questa strategia, e la capacità di entrambi di mantenere questa posizione non si basa esclusivamente su considerazioni interne. La minaccia percepita a livello internazionale getta un’ombra sul futuro delle loro politiche nucleari.

Abbiamo già visto i cambiamenti nella dottrina nucleare degli Stati Uniti che aprono alla possibilità di una guerra nucleare limitata, oltre alla possibile concomitante decisione di aumentare le proprie capacità nucleari, ivi comprese le difese dai missili balistici che hanno causato preoccupazione in Cina (ma anche in Russia) per la sopravvivenza del proprio arsenale e quindi messo in discussione la credibilità della sua deterrenza nucleare. Se questa tendenza si intensificherà, la promessa di un no first use potrebbe essere messa sotto pressione: del resto se la Cina sta lavorando per aumentare le capacità del proprio arsenale in modo da controbilanciare il potere atomico statunitense, è molto probabile che, una volta raggiunto un certo numero di missili capaci di colpire efficacemente i propri bersagli superando le difese Abm di Washington, Pechino cambi a sua volta la sua dottrina di impiego così come ha fatto la Russia.

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