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Sono oramai decenni che i destini di Burundi e Rwanda si intrecciano attorno alle violenze che hanno coinvolto gli Hutu e i Tutsi. Flagellato dal genocidio del 1994, il Rwanda ha provocato l’esodo di migliaia di profughi verso il Burundi, dinamica che oggi sembra essersi rovesciata, ma che comunque si ripete da anni.Questa storia si ripete perché il Burundi, come il Rwanda, ha visto una lotta intestina tra Hutu e Tutsi, che è ben lontana dall’essere risolta. L’apice delle violenze che oggi stanno caratterizzando la quotidianità burundese deriva dalle elezioni presidenziali dello scorso luglio in cui, per la terza volta consecutiva, è stato confermato Pierre Nkurunziza, al potere dal 2005 e che, molto probabilmente, vi rimarrà sino al 2020.Undici anni fa, Nkurunziza venne eletto dal Parlamento per guidare quella che sarebbe dovuta essere la rinascita democratica del Paese, spinta sotto la luce dei dialoghi tra Hutu e Tutsi, come tra l’altro richiesto dagli Accordi di Arusha raggiunti in Tanzania nell’estate del 2000. Questi ultimi, volevano un’alternanza al potere per i primi tre anni dal loro raggiungimento, in cui, 18 mesi avrebbero visto una presidenza Tutsi ed altrettanti una presidenza Hutu: non solo, essi auspicavano ad una medesima alternanza anche a seguire, data da un massimo di due mandati consecutivi dello stesso presidente appartenente alla stessa etnia. Il terzo mandato di Nkurunziza quindi, non ha lasciato adito alle polemiche sin dalla sua candidatura annunciata nell’aprile del 2015.È da questo momento che le violenze sono scoppiate nuovamente e si sono inasprite quando la stessa Corte Suprema avallò il terzo mandato di Nkurunziza come legittimo in quanto il primo non era da considerarsi rientrante nella casistica voluta dagli Accordi di Arusha, perché eletto dal Parlamento e non dal popolo. Le elezioni di luglio si svolsero in un clima di tensione: la stessa Missione di Osservazione Elettorale delle Nazioni Unite sottolineò la mancanza di libertà e trasparenza. Oltre 12.000 persone fuggirono verso Rwanda, Repubblica Democratica del Congo e Tanzania.La situazione è quindi critica e, nel disinteresse internazionale, le violenze lasciano presagire una situazione molto vicina a quella del Rwanda di ventidue anni fa. Le violenze, gli omicidi e le denunce dei familiari delle persone uccise non bastano affinché si accendano i riflettori su questo piccolo Paese africano.È per questi motivi, e per la completa sfiducia verso le istituzioni e la Procura della Repubblica del Burundi, che le famiglie delle vittime grazie anche ad un gruppo di avvocati che si sono messi a loro disposizione, intendono presentare prove e memorie dinanzi la Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aja, nonostante la Procura burundese continui a chiedere di presentare tali denunce prima ad essa e poi, eventualmente, alla CPI. Tale richiesta non è stata presa in considerazione dalle famiglie delle vittime che sono infatti pronte ad appellarsi all’organismo internazionale denunciando tali crimini.È di pochi giorni fa la notizia che nella capitale Bujumbura le tensioni non accennano ad arrestarsi: non solo violenze contro i civili, ma anche attacchi verso i rappresentanti del governo. È chiaro quindi che non solo è necessario far conoscere quanto stia accadendo ma, soprattutto, è necessario che la comunità internazionale prenda le opportune misure, come ad esempio rafforzare la presenza delle Nazioni Unite nel Paese, con una task-force in grado di vigilare al fianco della Polizia locale, evitando altresì voci sui soprusi che la stessa starebbe commettendo ai danni dei cittadini.

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