L’evoluzione improvvisa del conflitto in Etiopia, in poche settimane catapultatosi dalla regione in rivolta del Tigray alle porte della capitale Addis Abeba sulla scia dell’alleanza tra tigrini e ribelli Oromo, offre una lezione strategica importante per i conflitti e la geopolitica contemporanea. Sul sito dell’Ispi Uoldelul Chelati Dirar, Professore Associato di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Macerata, ha scritto che “una vittoria delle forse tigrine, che controllano tutti i centri strategici e le vie di approvvigionamento mentre il governo centrale è arroccato ad Addis Abeba e nel sudovest dell’Etiopia, è ormai più che verosimile” e che questo metterebbe spalle al muro il governo dell’ex Nobel per la Pace Abyi Ahmed a un anno dall’intervento nel Tigray volto a sedare il tentativo di secessione.
Per la terza volta nel giro di poco più di un anno, dunque, si profila uno scenario in cui un conflitto è destinato a finire, di fatto, manu militari. Così è stato un anno fa nel quadro della guerra del Nagorno-Karabakh, in cui l’Azerbaijan ha riportato una vittoria sul campo sull’Armenia, e così è accaduto nelle calde settimane dell’estate afghana, contraddistinta dalla dissoluzione del governo della Repubblica Islamica dell’Afghanistan sotto i colpi dell’avanzata dei Talebani. Gli azeri in Nagorno-Karabakh e i talebani in Afghanistan hanno, sostanzialmente, messo il mondo di fronte al fatto compiuto in poche settimane. E uno scenario simile in Etiopia certificherebbe un deciso cambiamento rispetto agli anni scorsi.
Molti conflitti apertisi nelle prime fasi del nuovo millennio sono stati conclusi da cessate il fuoco esterni o si sono prolungati in stalli e stagnazioni; altri, invece, hanno avuto una risoluzione repentina con azioni e colpi di mano che hanno chiuso repentinamente le partite o, come in Afghanistan, riblatato scenari che parevano cristallizzati.
Dalla guerra russo-georgiana del 2008 all’intervento in Crimea nel 2014 Mosca è stata la principale potenza globale a capire l’importanza di azioni di questo tipo, che permettono di agire di rimessa e di ottenere risultati nel mondo della “grande anarchia”, il frutto del fallimento del disegno unipolare statunitense e del conseguente processo di depotenziamento e delegittimazione della diplomazia come fattore risolutore dei conflitti; l’estremizzazione della logica di cinico realismo che incentiva i pistoleri in ogni scenario internazionale a sparare quando il colpo è in canna e il tempo propizio, sperando di agire in maniera tanto fulminea da anticipare i tempi più lunghi e macchinosi della diplomazia e del confronto.
Si tratta di una prassi che con le sue azioni del passato Washington ha di fatto incentivato, dapprima presentandosi come garante armato del diritto internazionale e “poliziotto del mondo” (come i casi degli interventi in Somalia nel 1993, in Jugoslavia nel 1995 e in Kosovo nel 1999 confermano) e in seguito provando a farsi demiurgo di nuovi interventi (Afghanistan 2001 e Iraq 2003) senza però conseguire veri dividendi strategici. Questo ha da un lato incentivato una valorizzazione dell’azione a sorpresa e auto-conclusiva, dall’altro spinto avversari degli Usa e potenze regionali a pensare al “mordi e fuggi” come garanzia unica possibile di successo.
La Russia in Crimea e Georgia, la Turchia nel cantone di Afrin e nel Kurdistan siriano, l’Azerbaijan in Nagorno-Karabakh, il generale Haftar più volte e senza successo in Libia, il governo iracheno contro i curdi di Erbil, i talebani a Kabul e ora i ribelli tigrini, dopo un analogo tentativo del governo etiope, hanno tentato di mettere in campo questa strategia per portare la realtà dei fatti oltre ogni possibile spazio di trattativa. E questa spinta a concludere armi in pugno i conflitti rappresenta una sostanziale novità nell’era post-Guerra Fredda e si affianca alla permanenza di contesti in cui, al contrario, la paralisi politica e militare frena possibili vie d’uscita.
Questa dinamica segnala il deterioramento delle relazioni internazionali e degli scenari globali nel contesto contemporaneo. Una sfida a tutto campo per i principali Paesi, che nel mantenere pace e stabilità dovranno fare sempre di più i conti con le iniziative dei singoli attori incentivati a chiudere militarmente partite politiche spinose nella speranza di ottenere risultati decisivi. Una dinamica che può pericolosametne riportare il mondo indietro di un secolo. E consolidare uno scenario che, come ricordano spesso politologi di peso come John Mearsheimer, non è multipolare, ma bensì anarchico. Pericolosamente anarchico.