Gli Usa si preparano a salutare il Medio Oriente. A vent’anni dall’inizio della War on terror e del sanguinoso, e costoso, impegno in Afghanistan e Iraq, Washington si sta preparando a spostare ancora piĂą a Est il suo baricentro. Questo però non significa un disimpegno completo, dato che il reticolo di basi e la presenza di uomini in tutta l’area rimarrĂ anche dopo il ritiro dai due teatri di guerra.
Per capire meglio il complesso scacchiere che si estende dalla Turchia all’Afghanistan fino allo Yemen è meglio partire dalla disposizione delle forze americane e soprattutto dalle basi. Sempre secondo il database realizzato da l’analista indipendente David Vine nel 2019 si potevano contare circa un centinaio di basi e avamposti americani. MetĂ riconducibili a strutture grandi e costose e circa una quarantina piĂą piccole, le cosiddette lily-pad base. I conteggi ovviamente non sono precisi. Alcune sono registrate e si trovano negli open data del Pentagono, ma molte altre sono basi segrete, individuate solo da rapporti e fonti della stampa americana. Basti pensare al reticolo di strutture presenti in Pakistan per le attivitĂ segrete coi droni.
Non c’è un Paese che primeggi sugli altri per il numero di basi, sono quasi equamente distribuite, anche se i centri nevralgici si confermano quelli sulla sponda occidentale del Golfo Persico. Se escludiamo in contingenti di Afghanistan e Iraq sui quali ci soffermeremo tra poco, il resto delle truppe è concentrato tra Kuwait (13 mila uomini), Qatar (10 mila), Bahrain, Emirati Arabi Uniti (4 mila) e Giordania (circa 2 mila).
Quelli appena elencati sono gli stanziamenti che difficilmente vedranno modifiche nei prossimi anni. Ad esempio la base di Al Udeid, in Qatar, è destinata a nuovi lavori di allargamento, l’estate scorsa fonti del Pentagono confermavano, senza però parlare di numeri, la possibilità di implementare il sito. In un breve dossier pubblicato dal CRS, il centro studi del Congresso americano, si legge che Doha e Washington hanno firmato un memorandum per allargare la base. Sembrerebbe un controsenso rispetto alle iniziative del presidente Donald Trump per finire la endless wars e tagliare le costosissime missioni nell’area.
Ma in realtà a ben vedere si scopre che dal 2002 gli sceicchi qatarioti hanno speso ben 8 miliardi di dollari per supportare gli americani contro gli appena 500 milioni versati dal governo americano. Non solo. Nell’agosto scorso il Washington Post riportava la notizia che il Qatar aveva messo sul piatto un altro miliardo e ottocento milioni per ampliare la capienza della base portandola a poter accogliere 10 mila uomini.
Il lungo addio afghano
Destino molto diverso avranno invece le truppe americane in Afghanistan. Oggi le strutture americane nel Paese dovrebbero essere circa una decina. Fino a giugno gli uomini stanziati nel Paese erano circa 12 mila, poi a è arrivata la conferma che il numero di truppe è stato portato a 8.600. Numeri sempre più bassi se si pensa che nel corso della guerra arrivarono ad esserci nel Paese oltre 100 mila soldati a stelle e strisce. Da anni Donald Trump cerca di porre fine al più lungo conflitto Usa.
A febbraio lo storico accordo tra la delegazione americana e quella Talebana a Doha ha aperto le porte alla fine della presenza americana. Fonti talebane avevano confermato che il ritiro completo sarebbe avvenuto in 14 mesi, quindi per la primavera del 2021, ma la Casa Bianca vorrebbe accelerare. Il Tycoon potrebbe spingere per completare l’addio entro novembre per poter così giocare la carta in chiave elettorale, ma il Pentagono frena per ragioni di sicurezza.
Fonti del dipartimento della Difesa hanno fatto sapere di un incontro nello Studio ovale tra vertici del Pentagono e il presidente nel quale i militari sarebbero riusciti a strappare una piccola promessa: tenere nel Paese almeno 4 mila uomini fino al termine dell’anno. Il problema, hanno evidenziato i militari, è che lasciare il Paese in meno di cinque mesi potrebbe avere gravi conseguenze. Il fragile governo afghano verrebbe lasciato solo a trattare coi talebani, che però hanno dimostrato di non essere interessati a trovare un’intesa con Kabul ma solo a cacciare gli americani. Le difficoltà però non si fermerebbero solo a questioni di politica interna, ma anzi avrebbero riflessi anche sulla logistica e sulla sicurezza internazionale.
Nel primo caso, hanno fatto notare i tecnici del Pentagono, lasciare il Paese entro novembre comporterebbe dover abbandonare un grosso quantitativo di equipaggiamento che potrebbe finire nelle mani dei miliziani. Un secondo problema riguarderebbe invece una parte dell’accordo stesso siglato a febbraio, cioè la fine del rapporto tra gli eredi del Mullah Omar e Al-Qaeda.
Il primo luglio il dipartimento della Difesa ha pubblicato un lungo dossier dal titolo Enhancing Security and Stability In Afghanistan e tra i vari capitoli si fa riferimento al fatto che esistono ancora forti legami tra il ramo locale di Al-Qaeda, AQIS (al Qaeda nel Subcontinente indiano) e membri talebani. Nel report si scrive anche che la continua pressione delle forze americane e della colazione Nato hanno permesso di limitare la capacità di attacco di AQIS, un modo per dire che l’eventuale addio prematuro potrebbe permettere al gruppo di tornare ad essere ancora pericoloso.
L’incognita irachena
Un altro scenario in cui le cose avvengono rapidamente è quello iracheno, l’altra grande piazza in cui Trump punta a chiudere presto la partita. Ma anche in questo caso il Pentagono frena. Il generale Kenneth McKenzie che guida lo United States Central Command, a inizio luglio è tornato sul ritiro delle truppe dopo aver incontrato il nuovo premier iracheno Mustafa al Kadhimi. A margine dell’incontro McKenzie si è detto ottimista sulla possibilità che un contingente possa rimanere nel Paese anche nei prossimi anni. Oggi in Iraq ci sono ancora 5.200 uomini, impegnati soprattutto per supportare le forze regolari di Baghdad impegnate a eliminare ciò che resta dello Stato Islamico.
Il punto è che l’Iraq sembra non essere più un Paese ospitale per gli americani. La situazione è cambiata in modo radicale dopo l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani avvenuta proprio a Baghdad. Da quel momento una fetta della classe politica irachena ha spinto per accelerare l’addio delle truppe statunitensi. In realtà a ben vedere le difficoltà per il contingente a stelle e strisce è iniziata ben prima, quando cioè i soldati sono diventati il target delle milizie sciite nel Paese appoggiate da Teheran e uscite rinforzate dalla fine del Califfato.
Nelle settimane successive allo strike americano contro il capo delle Forze Quds e alla risposta iraniana contro alcune strutture irachene, gli americani hanno spostato una serie di batterie anti-missile Patriot dall’Arabia Saudita all’Iraq per proteggere le proprie forze. Oggi lo scenario sarebbe ancora in mutamento. Secondo McKenzie il nuovo premier avrebbe mostrato una maggiore fermezza contro le milizie sostenute dalla vicina Repubblica islamica, in particolare Khataib Hezbollah, la formazione guidata fino a gennaio da Abu Mahdi al-Muhandis ucciso con Soleimani nel raid del 3 gennaio. Verso la fine di giugno l’Iraqi Counter Terrorism Service ha infatti compiuto una serie di operazioni contro il gruppo a sud di Baghdad come risposta ai continui attacchi dei miliziani contro obiettivi americani.
L’idea del Pentagono è quella di mantenere una qualche forza stabile nel Paese proprio per il confine che questo condivide con l’Iran. Non solo. Washington e Baghdad stanno provando a risistemare il loro rapporti dopo il blitz di gennaio. L’11 giugno scorso si è tenuta una prima sessione negoziale tra le delegazioni dei due governi, mentre a luglio il premier al Kadhimi dovrebbe volare a Washington per incontrare il presidente Trump. Segno che l’uscita dal Paese non sarà forse immediata.
La fine dei pilastri americani
I capitoli afghani e iracheni, se osservati troppo da vicino, non aiutano a capire come stia cambiando il quadro complessivo. Hisham Melhem, analista del think tank Gulf States Institute, ha messo in luce sul Financial Times un aspetto significativo di come cambierà la policy americana nella regione. Per Melhem gli ultimi anni hanno visto il crollo dei quattro pilastri sui quali si poggiava la politica americana in tutto il Medio Oriente, cioè il rapporto privilegiato di Washington con Egitto, Arabia Saudita, Turchia e Israele.
Negli anni complessi della Guerra Fredda il rapporto degli americani con questi quattro attori ha permesso di reggere a diversi choc, e anzi giocare un ruolo di primo piano: basti pensare al legame con Riad in funzione anti-iraniana o l’appoggio ai mujaheddin contro le truppe sovietiche durante l’invasione dell’Afghanistan negli anni 80.
Oggi, scrive Melhem, quei quattro pilastri sono diventati più autonomi e liberi di perseguire il proprio interesse nazionale. Il tutto accelerato sia dalla presidenza di Barack Obama che da quella di Donald Trump. Il primo si è sempre lamentato dell’attitudine degli alleati di trascinare l’America in conflitti settari che poco avevano a che fare con gli interessi di Washington, come nel caso dell’impegno Saudita in Yemen attivato nel 2015 in funzione anti iraniana. Il secondo si è invece speso per lasciare sempre più responsabilità a questi attori per disimpegnare gli Usa.
La rotta verso l’Asia
Se è vero che in alcuni Paesi le basi americane resteranno, è altrettanto vero che, come per il caso Europeo, anche il Medio Oriente passerà in secondo piano. Una conferma che arriva anche da diversi analisti. Lo spostamento del baricentro verso oriente è dettato non solo da una certa incapacità degli Usa di tendere a freno i vecchi alleati, ma soprattutto da un interesse sempre più limitato.
L’esplosione dello shale oil americano ha modificato fortemente il fabbisogno energetico di Washington, di fatto riducendo la dipendenza dai giacimenti mediorientali. Allo stesso tempo nel 2011 l’amministrazione Obama ha ridisegnato la postura americana in Estremo Oriente con l’introduzione del pivot to Asia, un progetto di maggiore coinvolgimento nella regione con lo scopo di creare nuove alleanze, o rinsaldare quelle vecchie, per limitare il potere della Cina. Una posizione poi modificata dall’amministrazione Trump e sulle quali anche il Pentagono ha confermato di voler intervenire.
Questo è il terzo episodio di una serie di approfondimenti sulla presenza militare americana nel mondo. L’episodio pilota si può leggere qui. II secondo episodio riguardava il deflusso europeo, dalla ritirata in Germania alla presenza flessibile nell’Est Europa. Il quarto si soffermerĂ invece sulla nuova frontiera asiatica e sul contenimento della Cina. Il quinto, invece racconterĂ dell’impronta americana in Africa, tra operazioni fantasma e basi nel deserto.Â