Il destino dei reduci dell’acciaieria Azovstal è ancora in dubbio. Il leader dell’autoproclamata repubblica autonoma di Donetsk, Denis Pushilin, aveva detto che la loro sorte sarebbe stata decisa da un tribunale. “Li porteremo a casa. Questo è quello che dobbiamo fare con i nostri partner che si sono presi la responsabilità” era stata la prima reazione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ricordando che “i ragazzi hanno ricevuto l’ordine dai militari di uscire allo scoperto e salvarsi la vita”. Per adesso, quello che è certo, è che della sorte di chi è rimasto lì per settimane sotto le bombe si sa davvero molto poco. Secondo le stime, i combattenti dell’acciaieria dovrebbero essere circa 2500. Ma nessuno può dire con certezza nemmeno dove siano detenuti. Permangono dubbi anche sul capo, Denis Prokopenko, così come su Serhiy Volynskyy, comandante della 36a brigata speciale della Marina ucraina.
Le trattative sono in corso e si stanno rivelando per quello che tutti si aspettavano: complesse e sempre sul filo della rottura. Perché da Azovstal, ancora una volta, può passare il destino della guerra e delle future relazioni tra Russia e Ucraina. Un punto cruciale anche per la stessa leadership di Zelensky, che deve capire come non abbandonare quegli uomini. Ma anche per Vladimir Putin che sa che su Mariupol e la sorte di quelle forze si gioca quel poco credito rimasto a livello diplomatico.
I combattenti di Azovstal, del resto, nel corso di questi mesi sono diventati un simbolo. Ed è per questo che tutto appare più difficile: perché si tratta non solo sulla vita di migliaia di uomini, ma su come gestire un simbolo vivente di una guerra ancora in corso. Un manipolo di uomini che ha saputo cambiare la percezione di sé e della guerra. Con il Battaglione Azov, vertice e forza più rilevante degli ultimi uomini di Mariupol, che ne è stata l’esempio più cristallino. Negli anni della sotterranea guerra tra Kiev e filorussi, in quella guerra dimenticata che è stata il Donbass prima che le truppe russe invadessero l’Ucraina, gli uomini di Azov erano considerati una milizia controversa, accusata anche di diversi crimini da organizzazioni internazionali e istituzioni. È soprattutto verso quel battaglione che si è rivolta l’accusa di molti critici delle posizioni ucraine. E in generale, il battaglione non è mai stato l’esempio più fulgido del patriottismo ucraino, bensì un movimento paramilitare scomodo. Pericoloso anche per la stessa Kiev, dal momento che quel gruppo rappresentava una frangia estrema che aveva un peso specifico sulla propaganda russa quanto sui critici dei governi ucraini da parte occidentale.
La guerra ha inevitabilmente rovesciato le gerarchie mentali e le narrazioni
L’invasione impone la divisione in aggredito e un aggressore, occupante e occupato. Il primo, come ovvio, non può essere giustificato. Il secondo, inevitabilmente, diventa un elemento da proteggere. Il dibattito, i grigi, le scale di valori, si sono perse nel momento in cui le bombe russe hanno iniziato a piovere sull’Ucraina rendendo evidente che non si poteva più fare distinguo all’interno delle forze aggredite. E questo ha fatto sì che anche sul battaglione Azov sia inevitabilmente cambiata la percezione: non più personaggi, storie e forze scomode, ma gli ultimi strenui difensori di un Paese di fronte ai carri armati di Mosca.
Probabilmente solo la storia sarà in grado di esprimere un giudizio più o meno definitivo su quel battaglione. La cronaca risente dei fatti, che ogni giorno modificano il quadro bellico, delle sensazioni, dell’emotività, dell’odio, del fanatismo e in ultima analisi della propaganda. La guerra divora ogni lettura asettica, rende difficile e spesso condanna la complessità. Vale per il conflitto in Ucraina in generale e vale tanto più nello specifico per Azov e per i suoi combattenti, che dai sotterranei di Azovstal hanno rappresentato non solo la resistenza di Kiev ma anche segnato, di fatto, un nuovo senso di appartenenza dell’Ucraina. Un mito fondativo costruito durante questo drammatico assedio.
Intanto, in attesa di conoscere la sorte del battaglione, degli altri gruppi interni all’acciaieria e soprattutto quale sarà il giudizio della storia, l’assedio di Azovstal è già un simbolo. E per molti si sprecano i paragoni che aiutano a mitizzare qualcosa che già fa parte della memoria collettiva degli ucraini così come dei russi. Per qualcuno è una nuova Fort Álamo. Per altri è l’Alcazar de Toledo. Altri, in Ucraina, hanno definito Mariupol “le Termopili del Ventunesimo secolo”. Per altri ancora è Alesia, per altri Mirandola. Per qualcuno è la nuova Stalingrado. Tutto diventa narrazione: ma di sicuro è già un simbolo. Ed è proprio su questo simbolo che ora si gioca il destino di un conflitto.
Per Putin è una vittoria morale. Anche se di base, per la sua guerra, l’assedio di Azovstal è stata una enorme perdita di tempo e uomini su cui ha pesato tanto la difficoltà russa quanto la diplomazia internazionale e il valore dei soldati asserragliati. Per gli ucraini è una sconfitta, un sacrificio che a questo punto può sembrare inutile; ma allo stesso tempo una “vittoria” per aver bloccato per settimane la macchina da guerra del Cremlino senza abbandonare i martiri della nuova Ucraina. Per Azov, che non poteva più resistere senza il sostegno dall’esterno, è in ogni caso giunta una vittoria di immagine: perché quel battaglione che prima era visto con sospetto, accusato di crimini, quasi delegittimato per non destare problemi a Kiev, è diventato invece il simbolo della resistenza.